Il popolo che nessuno vuole…

Rohingya: chi li ha mai sentiti nominare? Incominciamo col dire che non si fugge e muore solo nel Mediterraneo e nel deserto del Sarah. Le crisi umanitarie che stanno mettendo in pericolo la vita di milioni di persone non sono circoscritte all’Africa e alle popolazioni che attraversano il deserto sahariano nella speranza di giungere in Europa.

Nel Sud Est Asiatico, nell’ex Birmania di Aung San Suu Kyi (attuale Ministro degli Esteri) dalla scorsa estate si è intensificato l’esodo dei Rohingya, minoranza mussulmana nel Myanmar a maggioranza buddista. Circa 400 mila rohingya da agosto sono in fuga dai loro villaggi a causa dell’aumento delle persecuzioni subite dai militari birmani. Si tratta del più grande spostamento di persone in un tempo limitato dai tempi del Genocidio in Ruanda del 1994.

Tantissimi sono gli uomini, donne e bambini morti durante i trasferimenti per fame, malattie e mine antiuomo disseminiate al confine tra Myanmar e Bangladesh.

La comunità internazionale al momento non ha preso una posizione netta al riguardo ma il Segretario Generale delle Nazioni Unite Gutierez ha richiamato il governo birmano, colpevole di non riconoscere nazionalità e status giuridico alla minoranza dei rohingya.

Solo l’amministrazione americana ha alzato la voce. Il Segretario di Stato Rex Tillerson ha espressamente parlato di “pulizia etnica” perpetrata dal governo birmano verso la minoranza preannunciando la possibilità di sanzioni economiche se il governo non permette il rientro dei profughi accampati sul confine con il Bangladesh.

Aung San Suu Kyi, di fatto leader del governo birmano e premio Nobel per la pace nel 1991, continua a tergiversare sulla crisi della minoranza e incolpa la stampa, colpevole, secondo la leader, di aver creato un opera di disinformazione sull’esodo e sulle persecuzioni di cui è vittima la minoranza rohingya. Per il governo birmano sono gli stessi terroristi ad aver incendiato i villaggi  rohingya.

Ma chi sono i Rohingya e perché devono fuggire dalla loro terra?

La loro è la storia di un popolo senza stato, di un popolo respinto dagli stati di cui sono originari. Definiti spesso “il popolo più perseguitato di sempre”, contano circa un milione e mezzo di persone sparse tra Birmania, Bangladesh e Pakistan.

Mussulmani sunniti, sono perseguitati dalla Birmania a maggioranza buddista e respinti del Bangladesh mussulmano verso il quale si rifugiano sperando di trovare protezione. Vivono prevalentemente nello stato di Rakihne, nel nord ovest del Myanmar.

Originari del Bengala si sono stanziati in Birmania ai tempi dell’Impero Coloniale Inglese anche se comunità mussulmane di rohingya vivevano in Myanmar già dal tredicesimo secolo.

In seguito all’indipendenza birmana dall’Inghilterra nel 1948, i rohingya, come le altre centinaia di etnie non buddiste  diventarono birmani ottenendo documenti  e diritti politici.

Mal visti dagli altri birmani in quanto mussulmani, dagli inizi degli anni ’70 hanno dovuto fare i conti con la perdita di diritti e con le persecuzioni a causa della loro fede islamica, in un paese fortemente buddista.

Alla fine della giunta militare, nel 2011, i rohingya sono ufficialmente diventati apolidi all’interno del Myanmar. Non hanno cittadinanza, non possono essere proprietari di beni, non possono avere più di due figli, non hanno documenti di riconoscimento. Sono costretti a vivere in campi alla periferia di grandi città, in estrema povertà e senza la possibilità di accedere all’istruzione e all’assistenza sanitaria.

Dagli anni 70 i rohingya hanno incominciato a spostarsi in Bangladesh e in Malesia nella speranza di trovare condizioni di vita e di lavoro migliori. Negli ultimi decenni poi sono oltre 200 mila i profughi che hanno dovuto abbandonare il Myanmar a causa di violenze e discriminazioni. Il loro esodo si è intensificato al crollo del regime militare birmano.

I profughi che sono riusciti ad attraversare il confine con il Bangladesh vivono in campi profughi sul confine, in condizioni disumane. Negli ultimi anni, anche con l’appoggio delle organizzazioni umanitarie si è provato a velocizzare il ritorno dei profughi rohingya in Myanmar ma è quasi impossibile rientrare poiché è necessario dimostrare di essere residenti in Myanmar dal 1883, cosa complicata da attuarsi poiché, come già detto, alla minoranza etnica dei rohingya non sono concessi documenti e cittadinanza.

In tanti hanno provato anche la traversata del Mare delle Andamane per giungere in Malesia, Thailandia e Indonesia. In quello che possiamo definire il Mediterraneo asiatico le imbarcazioni cariche di disperati rohingya sono respinte e in decine muoiono in mare e annegati.

Chi non ha la possibilità di intraprendere il viaggio in mare e deve restare in Myanmar rischia la vita nei  villaggi, continuamente vittime di violenze da parte dei birmani; buddisti che attaccano rohingya mussulmani in uno scontro etnico che negli ultimi anni ha causato migliaia di morti.

La situazione è peggiorata dalla scorsa estate, quando gruppi di ribelli Rohingya guidati dall’ Esercito di Salvezza dei Rohingya hanno iniziato ad attaccare polizia e militari birmani.

I ribelli rohingya secondo alcuni osservatori hanno attirato l’attenzione di Al Qaida che spera di creare una cellula jihadista in Myanmar, il governo birmano li considera terroristi ma la risposta dell’esercito è stata spropositata e ha coinvolto anche inermi civili rohingya.

Centinaia i civili morti in seguito alla rappresaglia delle autorità militari birmane contro il gruppo terroristico Esercito della Salvezza. Tantissimi i villaggi distrutti.

Dopo l’attacco dell’agosto scorso per la paura di nuove violenze, la fuga verso il Bangladesh dei rohingya è diventata imponente. Più di 400 mila sono fuggiti dal Myanmar. Ma la marcia dei profughi in fuga è drammatica. C’è chi prova a giungere in Bangladesh con carrette del mare lasciate alla deriva da trafficanti di esseri umani nella Baia del Bengala, chi attraversa il fiume Naf a nuoto. Ma i più cercano di raggiungere la regione bengalese del Cox’s Bazar a piedi, con carovane infinite di persone in marcia per giorni in condizioni estreme e con l’approssimarsi delle piogge monsoniche.

Lungo il percorso sono in tanti a morire per fame e stanchezza, soprattutto anziani e bambini. A rendere impossibile la traversata del confine sono le mine antiuomo, la mancanza di acqua e soprattutto il rischio di contrarre il colera. Il Bangladesh, uno degli stati più poveri del sud est asiatico non può far fronte, da solo, all’emergenza umanitaria dei profughi in fuga non per ragioni economiche, ma a causa di vere e proprie persecuzioni.

Per i rohingya e per il rispetto dei diritti umani, non resta che sperare che l’Onu intervenga non solo a parole per aiutare i disperati che possono essere tristemente definiti “Il popolo non voluto da nessuno”.