La presentazione, lunedì 19 dicembre, ore 19.30, presso il Museo Diocesano, in via de Anellis, 46.
A cosa serve la letteratura, la musica, l’arte? A capire se stessi. E Dante è contemporaneo a tutti perché è stato straordinariamente capace di indagare la vita in maniera originale e in tutte le sue sfaccettature
Michele Carretta, giovane laureando in lettere, appassionato del bel canto e cantore egli stesso, dalla voce potente e inconfondibile, firma di Odysseo, è oggi anche autore di un saggio che si preannuncia quanto mai stimolante per gli appassionati di Dante (e non solo per loro), dal titolo: “Miserere di me”: la misericordia nella Divina Commedia (Et Et, Andria 2016). Non potevamo perderci il piacere di intervistarlo.
Michele, come mai un libro su Dante?
Dante è uno dei protagonisti assoluti della Letteratura Italiana e davanti alla sua storia personale e letteraria non si può rimanere indifferenti: o lo si ammira per la sua passione o lo si odia per la sua superbia . Per cui questo libro a lui dedicato vuol essere prima di tutto un segno della mia riconoscenza al suo genio e alla sua grande fede, ma anche il tentativo di dire qualcosa di personale a riguardo. Questa volontà si fonde con quella di dare forma compiuta a studi, spunti di esegesi, collegamenti tematici che in quasi dieci anni di appassionato studio personale, hanno illuminato, talvolta di luce nuova e improvvisa, la comprensione della Comedìa, come la chiama Dante. D’un tratto, l’idea di legare queste riflessioni con il filo della misericordia, motore e motivo del viaggio di Dante.
Il titolo del tuo libro si intitola “Miserere di me”: la misericordia nella Divina Commedia. Ci vuoi spiegare?
Collegare il tema della misericordia all’esperienza del pellegrino protagonista della Commedia, mi sembra importante e non scontato. Solo dopo aver letto Agostino e Bernardo mi sono accorto di tale sottofondo. Come scrivo nell’introduzione, infatti, nella Commedia il tema della misericordia è come un sottofondo musicale non sempre percettibile, che continua a suonare anche quando il lettore non l’avverte.
Nell’Esposizione sul salmo 119, Agostino scrive: “Sed indebita Dei misericordia sanatur debita nostra miseria”, ovvero “la misericordia di Dio, senza nostri meriti, sana la nostra miseria e condona il nostro debito”. Quello della miseria umana che viene abbracciata e redenta da Dio, è un tema che l’Ipponate sviluppa più volte nei suoi scritti fino ad affermare che non c’è bisogno della misericordia lì dove non c’è miseria. Ora, qual è la prima parola dell’uomo smarrito nella selva oscura? È il grido “Miserere di me” rivolto al poeta Virgilio. Miserere è parola biblica ed proviene dalla stessa radice del termine misericordia. L’apparizione di Virgilio, dunque, è manifestazione della misericordia di Dio che si rivela ad ogni uomo in modo diverso e tenendo conto dell’individualità propria di ogni essere. Dio dona al poeta Dante di potersi salvare proprio attraverso la poesia. Il racconto della conversione, allora, coinciderà con la conversione della poesia e l’amore per la poesia diventa poesia dell’amore. Un amore che è chiamato a diventare caritas, forza che “move ‘l sole e l’altre stelle” (Par. XXXIII, 145).
Qualcuno potrebbe dire: Un libro su Dante? E a che serve?
A cosa serve la letteratura, la musica, l’arte? A capire se stessi, a cercare un significato che spesso si nasconde tra le pieghe del quotidiano e che, dunque, tarda d arrivare. Non ho la pretesa di dire cose nuove sulla Commedia – dopo otto secoli, la critica ha detto tutto e il contrario di tutto. Non sono neanche un esperto dantista. Con questo libro vorrei solo comunicare ai lettori qualcosa della straordinaria forza delle terzine di Dante attraverso la lente della misericordia.
Quindi Dante è ancora attuale?
Attualissimo! Egli è contemporaneo a tutti perché è stato straordinariamente capace di indagare la vita in maniera originale e in tutte le sue sfaccettature: l’amore (da quello di Paolo e Francesca alla caritas del terzo regno), la politica e le conseguenze negative della sua degenerazione (dalla tragedia di Ugolino al lamento sull’Italia da parte di Sordello), la questione della conoscenza legata alla figura di Ulisse, grande alter ego di Dante. E poi i grandi temi del Purgatorio: innanzitutto l’umiltà, poi la poesia (l’incontro con Casella, Forese Donati, Stazio e il tragico riconoscimento dei limiti del paganesimo attraverso il commovente distacco da Virgilio in Purg. XXVII), e finalmente l’incontro con Beatrice negli ultimi canti definiti una Commedia nella Commedia (qualcuno ha addirittura affermato che Dante abbia concepito l’intero poema per poter rivedere la sua donna nel Paradiso terrestre).
Questi temi vengono considerati dal poeta non alla stregua di arido materiale su cui costruire l’ennesimo trattato medievale destinato ad essere dimenticato, ma vengono calati nell’esperienza del singolo individuo, così come egli lo ha conosciuto nel quattordicesimo secolo. L’interesse dell’Alighieri è per l’uomo concreto, l’uomo che nasce, cresce, si innamora, e si realizza (o crede di realizzarsi). Leggere la Commedia è leggere la nostra anima, la “nostra vita”; da qui la sua straordinaria attualità.
Dante e l’amore: al canto V dell’Inferno la parola centrale è pietà; la “bufera infernal che mai non resta” invece si arresta per far parlare Francesca e l’amore adulterino è più forte della morte. Un’eccezione nella rigida morale dantesca?
I peccati dell’Inferno e i vizi del Purgatorio sono anche quelli di Dante. Per questo motivo quella che egli deve sostener lungo il viaggio è la guerra “sì del cammino e sì de la pietate”, è la battaglia spirituale da combattere innanzitutto in se stesso. Solo nel sacrario della propria coscienza, infatti, si cela la verità circa il proprio io – in interiore homine habitat veritas afferma Agostino. In questo percorso, ciò che permette al pellegrino di immedesimarsi nei peccatori, di provare compassione, di sentire-con, è la pietà, sentimento cristiano per eccellenza. Diversa dalla pietas tutta orizzontale del mondo greco-romano, la pietà cristiana è prolungamento dello sguardo di Dio sull’uomo, è vedere e sentire il prossimo come Dio l’ha guardato e sentito in Cristo. Per il Dante del Convivio essa è una nobile disposizione d’animo, un habitus che apparecchia l’uomo a provare compassione, misericordia, carità.
È attraverso la pietà, dunque, che Dante può conoscere l’esperienza dell’amore lussurioso del primo girone: “Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito / nomar le donne antiche e’ cavalieri / pietà mi giunse, e fui quasi smarrito”. Si noti che questa è la terzina centrale del canto: su un totale di 142 versi, essa occupa i vv. 70-72 e si pone come cerniera tra la prima parte del canto e la seconda, dedicata al racconto dei due amanti. Essa, dunque, fornisce la chiave interpretativa del canto. Solamente attraverso il sentimento della pietà Dante può immedesimarsi nello stato psicologico degli amanti e fare ammenda di un peccato che è stato anche il suo. Anche egli, infatti, nel periodo giovanile aveva abbracciato i valori filosofici legati ad un amore contro cui la ragione non poteva nulla – “che la ragion sottomeno al talento” è l’espressione che usa Virgilio quando deve spiegare a Dante chi siano i peccatori del primo girone.
L’amore è più forte della morte? Sì, ma Paolo e Francesca non sono le uniche due anime che vanno insieme anche dopo la morte. Rimangono insieme anche Ulisse e Diomede, Ugolino e l’arcivescovo Ruggeri. Questo fatto conferma quanto sostenuto dalla grande dantista Anna Maria Chiavacci Leonardi, la quale in un suo libro del 1979 dal titolo La guerra della pietate, la cui lettura consiglio a tutti, si soffermava sul tragico problema dell’umano dell’Inferno. Ella scrive: «Questo Inferno non è abitato da esseri a noi non omogenei, estranei alla nostra realtà. Essi vivono le nostre stesse passioni. Essi restano quali furono, ma quella dimensione è divenuta ora la loro condizione eterna, senza sviluppo, cioè senza possibilità di scelta, ed è fissata per sempre nel’ “aer perso”, senza speranza, né luce» (pagg. 63-64).
L’episodio di Francesca, dunque, non è un’eccezione; dietro la sua figura vi è la figura umana che in lei si riconosce, e che in lei appare travolta e perduta. In lei convivono l’amore e la morte – “Amor condusse noi ad una morte” – e questo costituisce il suo tragico limite.
In un tempo in cui tanti predicano il disimpegno, l’insegnamento di Dante sugli ignavi potrebbe dire qualcosa…
La questione del disimpegno è forse legata alla poca importanza che oggi si dà alla vita: se vivere è solo una passeggiata – piuttosto scomoda, a volte sfiancante e che per giunta non conduce ad una meta – perché impegnasi? Perché studiare? Perché sudare? Per cosa lottare? Si dovrebbe pensare più spesso al fatto che quello che non faccio io, lo dovrà fare qualcun altro al mio posto …e se io sapessi farlo meglio?
A proposito degli ignavi Dante dice: “Fama di loro il mondo esser non lassa; /misericordia e giustizia li sdegna / non ragioniam di loro, ma guarda e passa” (Inf. III, vv. 49-51). Il mondo li ha dimenticati, Dio né li giudica né lì perdona, e così anche il poeta non deve curarsi di loro. Essere ignavi è aver vissuto inutilmente, sprecando l’immensa possibilità di diventare uomini. Non basta infatti nascere per essere uomini: nel Convivio Dante afferma che “vivere ne l’uomo è ragione usare”!
Dante e l’impegno politico: un monito per i cristiani da sagrestia.
La sagrestia è comoda perché profuma di sacro ed è confortante; ma la pagina evangelica del buon samaritano afferma che l’incontro con Dio si consuma sulla strada che va da Gerusalemme a Gerico, sulla via cioè che dal santuario della Città santa conduce alla vita quotidiana. Diventa necessario, allora, impegnarsi in prima persona. E il primo impegno di un cittadino è quello di esercitare il diritto di voto, rifiutando la logica che fa pensare che un politico valga l’altro o che tanto non cambierà mai niente.
Dante ha combattuto fino all’ultimo. E anche quando, da esule, vedeva sempre più remota la possibilità di rientrare in patria, non ha mai perso la speranza. Memorabile a riguardo l’attacco di Par. XXV, canto non a caso dedicato alla virtù teologale della speranza: “Se mai continga che ‘l poema sacro / al quale hanno posto man e cielo e terra / sì che m’ha fatto per molti anni macro // vinca la crudeltà che fuor mi serra / dal bello ovile ov’io dormì agnello…” (vv. 1-5).
L’ultima domanda, per una testata come la nostra, è inevitabile: Dante, la conoscenza e Odysseo…
La questione della conoscenza è capitale per la retta comprensione del poema. Come nell’incontro con Francesca, Dante sperimenta il limite di un amore che sia solo passione e carnalità, così nell’incontro con Ulisse comprende quanto fallace sia l’idea che l’uomo possa spingersi sempre più in là nella comprensione di quanto gli sfugge. Con questo il poeta non vuole affermare che bisogna accontentarsi di quello che si sa, ma che nell’atto stesso dell’inoltrarsi bisogna osservare dei necessari limiti: “acciò che l’uom più oltre non si metta” (Inf. XXVI, 109 ). Il problema non è mettersi in viaggio – la conoscenza è un anelito profondo dell’uomo – ma viaggiare più oltre. Quando questo più diventa una trasgressione? A questa domanda deve rispondere ogni uomo, in base alla propria morale e fede. Sottrarsi al rischio della risposta equivale a non compiere nessun viaggio. Da parte sua, Dante ha già risposto regalandoci il “poema sacro / al qual hanno posto man e cielo e terra”.