«Ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso»
(Paradiso XV, vv.34-36)
Il quindicesimo del Paradiso è il primo dei tre canti dedicati a Cacciaguida degli Elisei, trisavolo di Dante, che si muove incontro a lui come una stella cadente, lo accoglie come Anchise fece col figlio Enea nei Campi Elisi e accosta il suo viaggio a quello di san Paolo.
L’atmosfera, densa di affetto, è dal mio punto di vista velata da un eccesso di moralismo: prima una tirata di Dante su quanti è giusto che siano all’inferno perché non apprezzano l’intercessione dei beati – Bene è che sanza termine si doglia (v.10): ma davvero si può pensare e scrivere una cosa simile? – poi, la lunga paternale di Cacciaguida, che rievoca i tempi di una più piccola, modesta e, soprattutto, morigerata Firenze, i cui usi erano ben lontani da quelli corrotti da ricchezza e lussuria propri dei tempi di Dante. Chiosa Cacciaguida, con evidente intento sarcastico: una Cianghella e un Lapo Salterello (v.128) sarebbero degni di essere paragonati a Cincinnato e Cornelia. Come dire, un fiorentino e una fiorentina di dubbia moralità accostati, in chiasmo, a due esempi tra i più illustri della proverbiale virtus romana.
Il canto si chiude commemorando la partecipazione di Cacciaguida alla seconda crociata – e anche su questo avrei da ridire… Qui egli perse la vita per mano dei musulmani, gente turpa (v.145), e nondimeno tale martirio gli valse l’ingresso in paradiso, a differenza del figlio Alighiero I, il bisnonno di Dante, che già da cent’anni sconta la propria pena purificatrice nella prima cornice del Purgatorio.
Vabbè, non mi si scalda il petto, è evidente.
Mi viene piuttosto in mente quel che un grande poeta e scrittore dei nostri tempi, Franco Arminio, chiama “scoraggiatore militante”, colui che, in qualsiasi posto viva, anche il più bello – e non mi pare che Firenze sia tra i peggiori – vede solo negatività, riesce comunque a lamentarsi e criticare e, alla fatidica domanda: che c’è di bello nel tuo paese?, risponde puntualmente: niente!
Ma come? Dante caro, sei in paradiso, incontri il tuo avo, fissi gli occhi ardenti della tua Beatrice, tocchi il fondo della tua gioia e gloria e tutto quello che sai tirar fuori è il solito pistolotto sui costumi corrotti?
Al massimo, avrei potuto concedertelo con Sordello Mantovano. Ora non più.
Non ci posso credere che proprio tu, che vedi Dio per noi, ti ostini nel dividere il mondo tra cristiani e gente turpa; non posso perdonarti che tu ti compiaccia del fatto che ci sia chi sanza termine si doglia.
Questo non è Paradiso. Forse è il tuo, e non voglio crederlo. Di certo, non è quello in cui spero io. Anche se non posso fare a meno di volerti bene: non fosse altro che per il mio, di moralismo…
Amedeo Ansaldi: «Ci sono virtù delle quali i moralisti non sospettano l’esistenza».
Elias Canetti: «Non ho mai sentito parlare di un uomo che abbia attaccato il potere senza volerlo per sé, e in questo i moralisti religiosi sono i peggiori».
Franco Arminio:
«Gli scoraggiatori militanti
li ho scoperti poco alla volta
disegnano un mondo piccolo
di fallimenti e di falliti,
doganieri dell’asma e dell’ attrito,
fiorai di un mondo morto.
adesso neppure li saluto
nego alla discordia
il mio tributo».