Ciò che contraddistingue gli invidiosi è la loro incapacità di vedere
Le riflessioni sul vizio dell’invidia, pubblicate qualche giorno fa da Sciannamea, mi danno l’opportunità di leggere o rileggere il canto tredicesimo del Purgatorio che Dante dedica alla trattazione di questo vizio. A contatto con i classici, infatti, ogni volta si scoprono cose nuove, vengono alla luce sottolineature che prima si ignoravano o passavano inosservate; da qui la loro bellezza ed eterna attualità. Arrivato nel secondo girone della montagna del Purgatorio, il poeta così descrive le anime degli invidiosi:
Di vil ciliccio mi parean coperti,
e l’un sofferia l’altro con la spalla,
e tutti da la ripa eran sofferti. (vv. 58-60)
Poiché in vita erano stati freddi e indifferenti alle sofferenze del prossimo, ora essi indossano il cilicio, un tessuto usato per le opere di penitenza, che punge la loro carne (pur essendo anime, i personaggi della Commedia godono dei sensi vitali come la vista, l’udito, il dolore, ecc). Se sulla terra non stati capaci di soffrire per l’altro, di compatire le altrui povertà e miserie; anzi, hanno perfino goduto dell’altrui sciagure, ora essi sentono pungere la loro carne, avvertono con violenza un pungolo che schiaccia la loro carne, quasi a volerli risvegliare alla loro umanità. Per farsi prossimo, infatti, occorre sentire sulla propria pelle il dolore che consuma il corpo e graffia l’anima di chi soffre. Si tratta di immedesimarsi nelle situazioni altrui, risvegliando quell’indifferenza che ha ormai addormentato le coscienza di molti. Basti pensare ai sempre più frequenti naufragi di immigrati: come non pensare alla loro disperazione? Come rimanere indifferenti pensando anche solo per un attimo alla violenza del mare che li ha ghiacciati e consegnati ad una morte orrenda e disumana?
Poiché quand’erano in vita gli invidiosi non hanno voluto sostenere i fratelli, ora l’uno sostiene l’altro, in un umile atteggiamento di carità. Scrive infatti l’Apostolo Paolo: «Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2) e ancora: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15). Tutte le anime, poi, sono materialmente sostenute dalla ripa della montagna, a dire che fin quando si è sulla terra, «comune madre» (Purg. XI, 63) dell’umanità, occorre che tutti si sentino e si comportino da fratelli.
E come a li orbi non approda il sole,
così a l’ombre quivi, ond’io parlo ora,
luce del ciel di sé largir non vole;
ché a tutti un fil di ferro i cigli fora
e cusce sì, come a sparvier selvaggio
si fa però che queto non dimora. (vv. 67-72)
Ciò che contraddistingue gli invidiosi è la loro incapacità di vedere a causa di un filo di ferro che chiude i loro occhi come si chiudono quelli dei falconi o dei sparvieri per addomesticarli. Chiara, allora, la corrispondenza con il vizio di cui essi si purgano: come sulla terra hanno guardato con ferrea crudezza i loro fratelli, con altrettanta crudezza ora i loro occhi sono cuciti da un filo di ferro. Come i loro occhi si sono chiusi davanti ai bisogni di chi mi guarda e chiede un aiuto, così ora i loro occhi sono serrati. Come la loro vista non ha saputo godere dell’amore che tutti unisce, così ora essa non può godere del sole, chiaro simbolo di Dio e del suo amore, che illumina (ma non per loro) il cammino verso la sommità della montagna purgatoriale. L’invidia, allora, parte e si sviluppa da uno sguardo, come già nell’etimologia della parola, ab o in più video. Essere invidiosi è vedere con tristezza i beni altrui e godere a vedere il male che causa la sofferenza del prossimo.
È tutta qui l’attualità di Dante. Viaggiando con lui ci si aiuta a ridefinire un’etica capace di riconsegnare l’uomo a se stesso. A partire da uno sguardo altro.
Come sempre, la lettura di Dante offerta da Michele Carretta centra l’intimo della persona nel suo rapportarsi col prossimo e, attraverso tale relazione, invita a concretizzare l’evangelo in comportamenti, stile di vita, improntati all’apertura verso l’altro, in particolar modo se indigente, sofferente, escluso, …
Ottima attualizzazione del messaggio dantesco, specialmente se si tengono presenti le attuali deviazioni di una certa incultura della persona, permeata di razzismo, emarginazione del diverso, dello straniero, … .