Bruno D’Amore, La matematica nell’opera di Dante: una prospettiva diversa per il Dantedì
È da tenere presente che tra le diverse iniziative per celebrare i settecento anni della morte di Dante una certa attenzione da un po’ di tempo si sta dando alla sua visione della scienza, tematica quasi del tutto assente nella critica letteraria di impronta crociana; ma per capirne meglio il ruolo che ha avuto nel percorso dantesco occorre prendere in considerazione il fatto che il tema dei rapporti fra arte e matematica, soprattutto, è diventato strategico nel corso del Novecento, già a partire con l’arte astratta inspiegabile se non si tiene presente la visione del mondo introdotta dalle geometrie non euclidee e dalla teoria degli insiemi di Cantor che, ben metabolizzate a livello artistico, hanno permesso di rinnovare ab imis linguaggi e stili. In seguito, nella seconda metà del secolo, la geometria dei frattali e poi la matematica delle tassellature, prima con Roger Penrose ed ultimamente con Robert Fathaver nel suo importante lavoro del 2020 Tessellations: Mathematics, Art and Recreation, hanno riproposto con forza il tema dell’unità della cultura, il superamento del dilemma delle due culture, quella umanistica e quella scientifica, artificiosa divisione che solo in Italia, pur essendo stata la culla dell’Umanesimo e del Rinascimento dove scienza e arte erano strettamente connesse, ha raggiunto livelli a dir poco nefasti con conseguenze culturali e istituzionali ancora presenti e non facilmente superabili.
Non è un caso che il matematico Godfrey H. Hardy (1877-1947), sulla scia di Leonardo, abbia parlato di ‘estetica matematica’ col scrivere che “il matematico, come il pittore o il poeta, è un creatore di forme” e di simmetrie analoghe a quelle create in campo poetico e artistico, come anche lo stesso scrittore francese Paul Valéry aveva evidenziato nel suo continuo abbeverarsi alle stesse fonti, quelle di Leonardo e della matematica del suo tempo; se le forme in campo artistico si servono di parole, schizzi, pezzi e suoni, in campo matematico danno origine ad idee ma tutte trovano nelle rugosità del reale e nell’esperienza del mondo il loro continuo nutrimento che poi costituiscono il plafond dell’unità della cultura che nessun sano pensiero filosofico può disconoscere. Alla luce di tali acquisizioni che hanno trovato una giusta collocazione anche in alcuni settori non marginali della stessa critica letteraria, non è un caso che, già nel 1995, uscì uno dei primi significativi lavori orientati in tal senso su Dante e la scienza, a cura di P. Boyle e V. Russo, dove i vari contributi erano indirizzati a cogliere il ruolo e la funzione del mondo della scienza del suo tempo sino a parlare di ‘epistemologia di Dante’, se per epistemologia si vuole però intendere l’immagine della scienza in generale e così come essa si presentava nel variegato universo medievale. Dopo l’importante evento internazionale tenutosi nel 2015 a Friburgo con la pubblicazione dei relativi atti su Dante e la critica letteraria. Una riflessione epistemologica (a cura di T. Kleinkeit e A. Malzacher), è da tenere presente il più recente Focus dell’Ufficio Stampa del CNR, Almanacco della Scienza. 1321-2021 Dante 700, (n. 22 dicembre 2020), dove diversi studiosi e scienziati si sono confrontati col mondo di Dante e la sua visione religiosa, politica e scientifica con illustrare finalità e modi di intendere la scienza cosmologica del suo tempo.
Questi studi nel loro complesso chiariscono meglio e ancora una volta che l’interesse di Dante per la scienza era funzionale alla sua concezione poetico-religiosa finalizzata a dare risalto alla divinità come fonte della creazione dove l’uomo “dee traere a le divine cose quanto può”; nello stesso tempo sottolineano il fatto che il poeta fiorentino era ben documentato sui dibattiti filosofico-scientifici del suo tempo sino a farsi quasi loro portavoce e ad interrogarli nelle diverse pieghe col fare del pensiero aristotelico e della visione tolemaica del mondo una vera propria Weltanschauung chiaramente in senso poetico alla pari di quella di impronta teoretica presente nella Summa Theologiae dell’Aquinate. In tale contesto viene ad inserirsi, ma con una particolare attenzione verso le conoscenze matematiche possedute da Dante e con un approccio diverso il recente lavoro del matematico e storico delle matematiche Bruno D’Amore, La matematica nell’opera di Dante (con prefazioni di Umberto Bottazzini ed Emilio Pasquini, Bologna, Pitagora Ed. 2020); già in diversi studi sulla Divina Commedia, come quello apparso nel volume del 1995 e di altri successivi, D’Amore ha spiegato la profonda simmetria di origine matematica che ne regge l’intero impianto dalle strutture geometriche dell’Inferno al complesso intreccio delle sfere, l’una dentro l’altra, del Paradiso. Tutto questo lungo e non comune percorso di continuo e contemporaneo abbeveramento alle fonti della matematica e dell’arte lo ha portato ultimamente a scrivere Arte e Matematica del 2015, lavoro dove si analizzano le metafore, le analogie e le identità ‘tra i due mondi’.
Impegnato per diverso tempo anche nel difficile ambito della didattica delle matematiche che gli ha permesso di sviscerarne meglio sul terreno storico-epistemologico le complesse concettualizzazioni che le hanno caratterizzate, D’Amore ci offre un lucido esempio di concreto superamento delle due culture nel senso che in quest’ultimo testo innanzitutto, per capire l’universo poetico ed esistenziale di Dante, si fa suo ‘contemporaneo’, come ha fatto Hélène Metzger negli anni ’20 di questo secolo nei confronti di alcuni scienziati come Newton e Lavoisier, per entrare nel vivo delle questioni e dello spirito del tempo che visti alle luce del presente possono sembrare stravaganti e tipiche di un mondo prescientifico; ma soprattutto si fa narratore, quasi fedele compagno di viaggio di Dante e di Guido Cavalcanti nelle diverse città da Siena a Ravenna, li segue nelle taverne e negli accesi dibattiti avuti, nelle ‘dispute aperte’ in campo filosofico, nei diversi incontri con personaggi e figure come ad esempio Lauretta che gli ha permesso di avere delle preziose idee per affrontare il grosso problema della quadratura del cerchio quando stava per portare a termine la terza cantica. Seguono con uno stile non letterario le due appendici finali che affrontano la presenza dei matematici contemporanei di Dante da Paolo dell’Abaco e Pietro Ispano, le cui opere erano ben conosciute come quella sull’ottica che avranno un ruolo non secondario nella visione della luce nel Paradiso, a Guido Bonatto, Michele Scotto e Roberto Grossatesta e quella degli antichi da Pitagora, Euclide e Isidoro di Siviglia, e tematiche attinenti l’aritmetica e la probabilità, la logica formale e la geometria, l’incontro a volte non sulla stessa linea con le idee di Aristotele.
D’Amore, pertanto, ci offre uno spaccato poetico-scientifico non comune del mondo di Dante e nel farsi narratore dei suoi interessi e aspirazioni ne sviscera le diverse articolazioni, operazione che permette una particolare esegesi di alcuni passi della Commedia in quanto lo scopo del lavoro, pur con uno stile letterario, è quello di chiarire i problemi scientifici legati al testo dalla ‘magia della scrittura posizionale dei numeri’ grazie all’incontro con le lezioni di Paolo dell’Abbaco a quella delle leggi dell’ottica di Ispano, dalla logica modale studiata da ragazzo a quella dell’infinità dei numeri oggetto di ‘dispute aperte’ a Firenze dai ‘giovani aspiranti filosofi’ nelle loro continue sfide davanti alle chiese; non a caso le pagine dedicate alla questione dell’infinito, croce e delizia secolari di poeti e matematici, sono quelle più pregnanti anche perché tale tema è stato affrontato nel Conviviodove si afferma che “’l numero quant’è in sé considerato, è infinito, e questo non potremo mai intendere”. D’Amore, nel sottolineare che solo a fine Ottocento G. Cantor ci ‘regalò l’infinito attuale’ e la capacità di renderlo più abbordabile ‘all’occhio dell’intelletto’, si sofferma sul ruolo nella Commedia degli ‘angeli, tanti ma tanti angeli, angeli non infiniti ma certo di numero superiore a qualsiasi estro umano’; così pure ci aiuta a capire meglio il senso del dialogo con Lauretta e la soluzione poetica che Dante apporta al problema della stessa quadratura del cerchio nel XXXIII canto del Paradiso con l’espressione “Qual è il geomètra che tutto s’affige, per misurar lo cerchio, e non lo trova, pensando, quel principio ond’elli…”.
Così i diversi episodi che hanno come oggetto ‘Angoli’, ‘triangoli’, ‘piramide’, ‘la taverna’, ‘gli asini che volano’, ‘la tabellina’, ‘Pitagora e l’armonia’ prendono in esame con piglio narrativo i dubbi, le difficoltà e le capacità di Dante di metabolizzare in senso poetico questioni secolari oggetto di discussione da parte dei matematici occidentali e anche il suo modo di capire e di riconoscere i contributi apportati da altri popoli come ‘le figure degli Indi’ ed il modo con cui gli ‘infedeli’, gli arabi, siano arrivati a scrivere i numeri; questo ricco ventaglio di conoscenze del mondo delle matematiche e la capacità di farle dialogare in maniera armonica da una parte colle dinamiche del mondo poetico e dall’altra con le verità della fede da parte di Dante offre l’occasione a D’Amore di mettere in atto a sua volta un gioco della finzione non comune col raggiungere, come dice Umberto Bottazzini nella prefazione, un ‘felice equilibrio tra realtà storica ed immaginazione’’. In tal modo si rende il poeta fiorentino un fine interprete di quell’anima cosmopolitica di cui era portatore un certo Medioevo, dove culture diverse pur scontrandosi contribuivano a potenziare il patrimonio conoscitivo dell’umanità.
Questo modo particolare di ricordare Dante, di viverlo e soprattutto di attraversarlo da parte di Bruno D’Amore ce lo fa sentire più nostro, ce lo rende compagno di viaggio, un navigatore che ci avverte che le stesse acque della conoscenza non sono lineari ma frutto del continuo scontrarsi con le onde del reale, dove i problemi scientifici sono veri e propri problemi umani con tutto il loro corredo esistenziale e non avulsi dalla vita quotidiana; in tal modo le stesse inquietudini e titubanze di Dante di fronte ai misteri della vita le sentiamo nostre e la Divina Commedia, come ogni espressione artistica e scientifica, può essere vista come un continuo e sofferto prendere atto delle nostre miserie e fragilità, dei nostri limiti e nello stesso tempo della necessità di fare tentativi per uscirne pur sapendo razionalmente il più delle volte di rimanere sconfitti. Bruno D’Amore nell’entrare in comunione con Dante e le sue traversie, cioè le nostre, ci offre pertanto un percorso poetico-scientifico ed insieme ermeneutico dove ragioni della vita e ragioni dell’arte-scienza non sono scisse, ma si incontrano coll’arricchirsi reciprocamente di ulteriori significati anche per l’uomo del XXI secolo, assetato soprattutto di testimonianze di vita coerente tra pensiero ed azione come indicava Simone Weil, figura quest’ultima che potrebbe essere il novello Virgilio per chi voglia avventurarsi nei meandri dell’esistenza e costruire quella che chiamava ‘architettura dell’anima’.