dante felicità

Abbiamo chiuso la precedente riflessione con una domanda: cosa è per Dante la felicità?

Senza dubbio possiamo rispondere che è il raggiungimento di Dio, desiderio supremo di ogni uomo. Di conseguenza, un desiderio è buono se conduce alla felicità; al contrario, esso è cattivo se porta alla morte. Ora leggiamo i versi danteschi per capire dapprima dove non vi sia la felicità, e poi scoprire dove invece risieda (almeno per Dante).

Nel quinto canto dell’Inferno, già oggetto delle nostra riflessione in diverse occasioni, si narra l’incontro del pellegrino con le anime dei «peccator carnali / che la ragion sottomettono al talento», ovvero con coloro che hanno sottomesso la ragione al desiderio sessuale. Alla domanda del pellegrino circa i «dubbiosi disiri» dei due amanti riminesi, risponde Francesca:

«Nessun maggior dolore

che ricordarsi del tempo felice

ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.

Ma s’a conoscer la prima radice

del nostro amor tu hai cotanto affetto

dirò come colui che piange e dice» (vv. 121-6).

La donna è ora nell’Inferno e il «tempo felice» è solo un lontano ricordo di quand’era viva; il semplice parlare del suo amore le provoca ancora dolore e pianto. Ciò che deve accendere l’attenzione e la memoria del lettore è l’utilizzo della rima felice:radice, che apparirà in Purg. XVII, nella memorabili parole della lunga lezione di Virgilio sull’amore e la felicità:

«altro ben è che non fa l’uom felice;

non è felicità, non è la buona

essenza, d’ogne ben frutto e radice» (vv. 133-5).

Tramite l’uso degli stessi rimanti, il poeta vuole azionare la memoria del lettore, che deve essere sempre pronta ad andare avanti ed indietro nel poema, per sottolineare la non bontà di quell’amore che ha portato i due amanti alla morte eterna dell’Inferno («Amor condusse noi ad una morte» dirà ancora Francesca nel suo dialogo con Dante).

È solo al termine del cammino purgatoriale, luogo della reale possibilità di rinascita e di riesercizio del desiderio, che conosciamo l’essenza della felicità, se pur ancora una felicità umana. Dopo che il viaggiatore ha condiviso l’esperienza del pellegrinare insieme alle altre animi; si è cinto del giunco dimostrando così di aver imparato la virtù tutta cristiana dell’umiltà; si è liberato da ogni vincolo peccaminoso ed il proprio arbitrio è stato proclamato da Virgilio «libero, dritto e sano» (cfr. Purg. XXVII, vv.140) egli è ora in grado di accedere al Paradiso terrestre, luogo posto sulla sommità della montagna del Purgatorio, a metà strada tra il cielo e la terra. Qui Dante incontra una nuova figura di donna, Matelda, personificazione dell’innocenza e della bellezza originaria:

«e là m’apparve, sì com’elli appare

subitamente cosa che disvia

per meraviglia tutto altro pensare,

una donna soletta che si già

e cantando e scegliendo fior da fior

ond’era pinta tutta la sua via» (Purg. XXVIII, vv. 37-42).

Se all’inizio del racconto messo in scena dalla Commedia la «via» di Dante era «smarrita» e il suo cammino impedito dalle tre malvagie fiere, simbolo del peccato, ora la «via» della «donna soletta» è colorata dalla presenza di fiori, simbolo della ritrovata primavera dell’anima. È il ritorno alla fanciullezza, intesa non come mero regresso allo stato infantile di freudiana memoria, ma come purezza e innocenza ridonata all’uomo peccatore. Come dirà Matelda

«Quelli ch’anticamente poetaro

l’età de l’oro e suo stato felice,

forse in Parnaso esto loco sognaro.

Qui fu innocente l’umana radice» (Purg. XXVIII, vv. 139-42).

L’età dell’oro descritta dai poeti è ora realtà nel Paradiso terrestre. Non è un caso allora che anche qui ritornino le parole in rima felice:radice, ad indicare la felicità terrena di questo luogo, abitato dai progenitori Adamo ed Eva, radici dell’umanità.