La civiltà occidentale, in queste ore, è scossa per quanto sta avvenendo in Francia. L’assalto condotto, il 7 Gennaio 2015, contro la sede della rivista Charlie Hebdo, rappresenta l’attentato terroristico col maggior numero di vittime in Francia dopo quello del 1961 ad opera dell’Organisation armée secrète, che aveva causato 28 morti durante la Guerra d’Algeria.
E  franco-algerini erano i due fratelli CherifSaid Kouachi, che hanno assaltato la redazione di Charli Hebdo, freddando dodici persone.
I presunti attentatori – rimasti uccisi in seguito ad un blitz attuato dalla polizia francese – secondo fonti investigative erano affiliati  ad al Qaeda nello Yemen.
Dopo la strage di Parigi, anche l’Italia si scopre esposta e vulnerabile.
«Non abbiamo segnali che indichino specifiche forme di rischio, ma siamo tuttavia esposti all’insidia terroristica, innanzitutto perché ospitiamo la massima autorità del cattolicesimo, a volte additata nei farneticanti messaggi di Al Bagdadi tra i possibili bersagli, poi per la tradizionale vocazione atlantista del nostro Paese e l’amicizia con gli Stati Uniti»: a confermarlo, nella sua informativa alla Camera dei deputati, è il ministro dell’Interno Angelino Alfano che ha ribadito il numero dei «foreign figheter» residenti in Italia (sono 53) e ha aggiunto che quattro di questi sono italiani. Uno di loro era Giuliano Delnevo, giovane genovese di 25 anni, morto lo scorso anno in Siria. Un altro giovane, invece, si trova attualmente in un altro Paese estero. La quasi totalità dei combattenti che hanno avuto a che fare con l’Italia «è ancora attiva nei territori di guerra, mentre la restante parte, minoritaria, è morta in combattimento o è detenuta in altri Stati», ha spiegato Alfano.
Pertanto anche nel “Belpaese”, punto di arrivo di molti migranti per le sue caratteristiche geografiche, si registra un clima di paura e tensione.
La paura, purtroppo, genera spesso sterili generalizzazioni (della serie: “I mussulmani sono tutti terroristi!”), diffidenza e quindi chiusura: un cocktail rovinoso che potrebbe arrestare, bruscamente, quel processo di integrazione e di incontro tra culture diverse che rappresenta il vero orizzonte per una società che si professa, autenticamente, moderna e globale.
Dunque, nonostante la violenza più efferata, dobbiamo continuare ad avere speranza. Anche nella città di Andria, ad esempio, la paura avrebbe potuto, e fortunatamente questo non è avvenuto, arrestare il processo di integrazione culturale nato nella Casa di Accoglienza “Santa Maria Goretti”. Ricordo, infatti, che la città pugliese è finita sotto la lente di ingrandimento della magistratura per questioni terroristiche: un centro islamico, insieme ad un call center, sarebbe stato – secondo le indagini dei carabinieri del Ros e della Dda di Bari – un centro di reclutamento di futuri kamikaze disposti a sacrificare la propria vita per colpire i “cani infedeli”, ovvero il mondo occidentale. Dalle risultanze investigative emergeva che i presunti terroristi volessero colpire, nello specifico, Don Geremia Acri, di cui si parla con ogni probabilità nell’ordinanza di custodia cautelare del gip di Bari, Maria Scamarcio, che nell’aprile 2013 portò in carcere cinque presunti terroristi con base ad Andria.
Il sacerdote – un uomo semplice, a volte dolosamente isolato, considerato erroneamente da molti un “prete di frontiera” – è ancora fermamente impegnato, con l’ausilio di molti collaboratori e nonostante le minacce ancora presenti, nella sua missione di “umanità prossima”: un’azione costante e instancabile che si traduce in opere concrete: si pensi a “Casa Santa Croce”, struttura intitolata al Giudice Rosario Livatino, sita nella periferia andriese e nata su un bene confiscato alla criminalità andriese, una casa che ospita molti richiedenti asilo politico e rifugiati per motivi umanitari. In quella struttura, un ambiento integrativo includente, si cerca quotidianamente di agevolare l’incontro tra chi accoglie e chi è accolto. In che modo? Attraverso servizi di accompagnamento dell’ospite nel disbrigo delle molteplici questioni burocratiche afferenti il tema dell’immigrazione, con la frequenza di corsi scolastici serali, con attività di consolidamento volte a rafforzare, nell’ospite, le nozioni acquisite a scuola, con attività ricreative che, in molti casi, vedono come protagonisti molti studenti delle scuole superiori andriesi.
La violenza non può e non deve assassinare l’ambizione di eliminare tutte quelle barriere che, ancora oggi, dividono l’umanità a causa delle etnie, della religione e del colore della pelle.
Diceva Paolo Borsellino: “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”.
Io voglio morire una volta sola. E non solo il solo a pensarla così.


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Una famiglia dalle sane radici, una laurea in Giurisprudenza all’Università di Bologna, con una tesi su “Il fenomeno mafioso in Puglia”, l’esperienza di tutti i giorni che ti porta a misurarti con piccole e grandi criticità ... e allora ti vien quasi spontaneo prendere una penna (anzi: una tastiera) e buttare giù i tuoi pensieri. In realtà, non è solo questo: è bisogno di cultura. Perché la cultura abbatte gli stereotipi, stimola la curiosità, permettere di interagire con persone diverse: dal clochard al professionista, dallo studente all’anziano saggio. Vivendo nel capoluogo emiliano ho inevitabilmente mutato il mio modo di osservare il contesto sociale nel quale vivo; si potrebbe dire che ho “aperto gli occhi”. L’occhio è fondamentale: osserva, dà la stura alla riflessione e questa laddove all’azione. “Occhio!!!” è semplicemente il titolo della rubrica che mi appresto a curare, affidandomi al benevolo, spero, giudizio dei lettori. Cercherò di raccontare le sensazioni che provo ogni qualvolta incontro, nella mia città, occhi felici o delusi, occhi pieni di speranza o meno, occhi che donano o ricevono aiuto; occhi di chi applica quotidianamente le regole e di chi si limita semplicemente a parlare delle stesse; occhi di chi si sporca le mani e di chi invece osserva da una comoda poltrona. Un Occhio libero che osserva senza filtri e pregiudizi…

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