Io ricordo una bambina di due anni, che, messa davanti ad una statuina del Bambino Gesù, disse: “Questa non è una bambola”.

(Maria Montessori)

Venerdì mattina, lezione in prima elementare, l’insegnante portava con sé da inizio anno una fantomatica e mai vista “papera Pina”, la mascotte delle lezioni, l’idolo di una classe.

  • Non sono io, bambini, è papera Pina.

Vabbè, concediamo ad una maestra che ama il suo lavoro l’insicurezza che la porta a costruirsi il personaggio? È un’adulta, ricordiamocelo: gli adulti sono fatti così. Hanno paura di tutto, devono farsi scudo, guardarsi le spalle. Sempre. Ed io lo concedo a quell’insegnante. Non c’è platea più pericolosa da cui difendersi, se non quella composta da 12 bambini che iniziano il loro percorso scolastico. Possono tagliarti le gambe e farti rimanere sotto shock come solo la naturalezza è in grado di fare. Lei lo sapeva bene. Perché amava il suo lavoro ed amava quei bambini.

Lisa (uso il suo nome vero, perché è una bambina ed i bambini non hanno bisogno di un personaggio):

  • Maestra, mi aiuti a temperare?

Nel dare il suo assenso la maestra, in verità, stava pensando che si doveva alzare per raggiungere il cestino e non ne aveva alcuna voglia.

I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano a spiegargli tutto ogni volta

(Exupery, ah! De Saint-Exupery! Quanto avrei voluto conoscerti).

Lisa teneva la testa dritta e gli occhi nero pece puntati verso l’alto, oltre i suoi occhiali viola. Fissando la maestra con  lo sguardo di un cerbiatto, le tese le mani, i palmi anche loro verso l’alto, il destro sul sinistro. Sembrava chiederle la comunione ed invece era lì per raccogliere i residui di un pastello. L’unica cosa che la sua maestra le avrebbe restituito. Al cestino ci sarebbe andata lei.

La maestra fissò quella scena perché si rese conto che non poteva permettersi il lusso di perderla nei meandri del suo niente, fatto di troppi eventi accavallatisi in breve tempo. No, non era una scena che meritava l’oblio. Ma era una maestra contemporanea, davanti a bambini contemporanei ed aveva mezzi contemporanei.

  • Lisa non muoverti. Ho bisogno di fotografarti. Sei poesia ed io ti prometto che ti spiegherò perché.

Lisa non aveva bisogno di spiegazioni.

  • Grazie.

Rispose “grazie” e non si mosse, in attesa di quei residui.

La maestra la fotografò, il pastello si temperò, Lisa non andò verso il cestino.

Non bastava quanto aveva già fatto, raccogliendo in un solo gesto: il rispetto per il lavoro del bidello, (in quella scuola del 2019, i bidelli ancora amavano essere chiamati così. La cosa piaceva molto alla maestra: erano uno schiaffo alla presunzione generale), il richiamo alla comunione, la raccolta delicata dei residui, la presunta coccola per la pigrizia della maestra che non si voleva alzare?

No, non era sufficiente.

  • Maestra, posso prendere un pezzo di scotch?

Quella, la maestra, era già abbastanza frastornata e non aveva il coraggio di chiedersi cosa avesse in mente quella polpetta alta poco più di un metro (che a dirla tutta, era alta molto più di un metro, se vogliamo sforzarci di non pensarla dal punto di vista meramente fisico):

  • Certo.

(Dio mio non mi lasciare, pensò. Ne ho altri 11 da tenere sott’occhio. Cortesemente, mio Dio, non ora, non mi abbandonare. Il grido sulla croce era, ma con un tempo verbale diverso. Cercava di prevenire).

Lisa, dopo aver poggiato i residui di pastello sulla cattedra e preso lo scotch, iniziò ad arrotolarne uno su sé stesso e con quello scotch lo fermò alla base, noncurante del fatto che, invece, avrebbe dovuto tornare a posto. Quella era la cattedra!

Va però tenuto conto che la maestra di Lisa aveva letto pagine e pagine di monografie montessoriane. No, non su Montessori, ma di Montessori. Non aveva preso la specializzazione dell’Associazione Nazionale, non ancora, ma ci credeva moltissimo. Lisa doveva averlo capito e naturalmente non fu fermata. La maestra rimase lì ad osservarla, chiedendosi ripetutamente dove stesse andando a parare. Impossibile intuirlo!

  • Maestra guarda! Ho preparato la rosellina che serve per il cartellone della seconda; quello della margherita con i petali dei Santi, gli amici di Gesù! Li mettiamo sugli steli piccolini, così le rose sembrano vere!

(Dio mio grazie per non avermi abbandonata, pensò la maestra.)

Signori, ho reso? Erano residui di pastello. Spazzatura! Una rosa.

“È il tempo che hai speso per la tua rosa, che fa la tua rosa così importante

(Exupery, ah! De Saint-Exupery, quanto avrei voluto conoscerti. Parte II).

Quei residui divennero roselline, il cartellone prese vita, la maestra anche.

Lei, la maestra, però, era anche una mamma.

E con Lisa che ancora le scorreva nelle vene, perché solo nel sangue poteva finire una vicenda del genere per una maestra del genere, aprì la porta di casa e ricordò che aveva un’incombenza: cliccare sulla mail arrivata da Edmodo, scaricare i contenuti della verifica di epica che suo figlio avrebbe dovuto sostenere di lì a poco, capire come aiutarlo.

Punto e a capo: l’adulta. Non aveva pensato a guidarlo, ma ad aiutarlo. Intere pagine di monografie montessoriane e non aveva ancora capito niente!

Detto fatto era seduta davanti al pc: patronimici, similitudini, figure retoriche, proemio, svolgimento, catarsi, questione omerica, Iliade, esametri: come, dove, quando, perché?

Eh, perché? Ma perché dico io? Perché siamo così ottusi!?!

Il figlio della maestra aveva 11 anni, frequentava la prima media e a giudicare dai contenuti della verifica doveva anche avere un’insegnante di un certo tipo.

Arrivò la domenica ed ora i dolori, pensò la maestra. Già questa verifica, applicata ad un undicenne, l’aveva  fatta trasalire, ma ora i dolori.

  • Nicholas, un episodio che ti ha colpito. Non posso sceglierlo io. Qual è?

(Stava segretamente aspettando il dolore inflitto da qualche coltellata. Si aspettava una  risposta in stile Fortnite, un incubo della PiEsse 4, che solo a lei sembrava un incubo. Le sue classi erano piene di quell’incubo e lo nominavano come un sogno. Suo figlio non era da meno, ma Fortnite aveva magicamente smesso di caricarsi per lui. Non era un sogno: quel gioco era un incubo. La maestra lo sapeva bene!)

Nicholas in pigiama arrivò:

  • la morte di Patroclo. Voleva andare in guerra nonostante Achille glielo impedisse. Quando riuscì a convincerlo, mise il suo elmo e la sua armatura, in modo da confondere l’avversario. Ma non ascoltò il consiglio di non andare in campo aperto. Fu colpito tre volte: dal dio Apollo, da un eroe dardano e infine da Ettore. Questi, tolto l’elmo alla vittima, scoprì che non aveva ucciso chi pensava. L’ira di Achille si scatenò, così tornò in battaglia.

Nicholas in pigiama, invece, tornò da dove era venuto.

La maestra era inebetita.

  • Ha detto dardano? Si chiese: ma è mio figlio?

L’adultismo, un cancro, come tutti gli “ismi” che io conosca.

Nicholas senza pigiama tornò:

  • Scendo a messa, mà. Ho le prove, non c’è Tizia, sono in ritardo. Devo andare. Non porto con me il telefono. Appena finisce torno. Se mi rendo conto di dover perdere altro tempo ti chiamo dal telefono di Caio. A dopo, mà.

Così, come fosse una teglia di patate riso e cozze. (Sono sempre barese, i rimandi alla mia terra non possono mancare).

La maestra non aveva proferito parola prima, non lo fece in quel momento. Era veramente inebetita!

Lisa, Nicholas, Patroclo, Ettore, Achille e lui, l’eroe dardano.

Capì che aveva da sempre ragione: forse non esisteva un solo adulto, uno, per quanto adeguatamente preparato, pronto a vincere lo stereotipo del “bambino che è SOLO un bambino”.

Si alzò, fece una doccia e mentre l’acqua bollente le lambiva prima le meningi e solo dopo il corpo, pensò con il cuore strabordante di gioia ad una poesia di Janus Korczac:

Dite:
è faticoso frequentare i bambini.
Avete ragione.
Poi aggiungete:
perché bisogna mettersi
 al loro livello,
abbassarsi, inclinarsi, curvarsi,
farsi piccoli.
Ora avete torto.
Non è questo che più stanca.
È piuttosto il fatto di essere
obbligati ad innalzarsi 
fino all’altezza
dei loro sentimenti.
Tirarsi, allungarsi,
alzarsi sulla 
punta dei piedi.
Per non ferirli.

Orbene, di quella maestra, forse, non sarà dato conoscere l’identità, ma di certo non le sarebbe piaciuto imporre a nessuno le sue riflessioni.

Quello che preferiva fare era proporle.

Pertanto, è con una riflessione, seppur mia, che chiudo, come già chiusi un altro lavoro: a pesarci bene, non dev’essere stata casuale la scelta di Dio di incarnarsi proprio in un bambino.

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FontePhoto credits: Myriam Acca Massarelli
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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.