Chi non ha sentito parlare del volo di Dedalo ed Icaro e della triste fine di quest’ultimo, morto annegato per aver troppo preteso?
Non tutti sapranno, però, che tra Dedalo ed Icaro, rispettivamente padre e figlio, si distende una tela che tesse non poca trama di numerosi miti greci e di alcune tra le più celebri tragedie di Euripide, unanimemente considerato il più grande tragediografo del V sec. a. C.
Dedalo, stando all’etimologia, dovrebbe significare “capace di lavorare con arte” e in effetti colui che portò questo nome fu consacrato dal mito per essere l’inventore per antonomasia, in grado di escogitare progetti come nessuno mai. Dedalo era però anche geloso della sua arte, tanto da gettare dall’alto dell’Acropoli di Atene il nipote Talos, reo ai suoi occhi di aver momentaneamente oscurato la fama dello zio grazie all’invenzione della sega. Fuggito da Atene, Dedalo trovò ospitalità da parte di Minosse, re di Creta e marito della vogliosa Pasifae. Quest’ultima era figlia di Elio e di Perseide, e sorella di Perses, della maga Circe e di Eeta, re di Colchide e padre di Medea, colei che avrebbe prima aiutato e poi punito Giasone con atroce vendetta.
Torniamo a Dedalo, anzi a Creta. Il mito vuole che Minosse avesse chiesto al dio Poseidone un toro che egli stesso gli avrebbe sacrificato. Poseidone inviò un magnifico toro bianco, così bello che Minosse non volle più sacrificarglielo. Per punizione, il dio fece sì che un’insana passione per l’animale sconvolgesse il cuore di Pasifae la quale chiese aiuto a Dedalo. Per accontentarla, questi realizzò una vacca di legno, consentendole così di accoppiarsi col toro. Dalla immonda unione nacque il Minotauro, un essere mostruoso, col corpo di un uomo e la testa taurina. La vicenda era narrata nei Cretesi, una tragedia di Euripide, andata perduta.
Il Minotauro fu rinchiuso in un labirinto ancora una volta ideato da Dedalo – dunque, non a caso oggi si dice “dedalo di strade” per indicare un intreccio contorto di vie e vicoli in cui è facile perdersi. Dal labirinto progettato da Dedalo, una volta ucciso il mostruoso Minotauro, fuggì Teseo, grazie all’aiuto del filo di Arianna, figlia di Minosse. Arianna e Teseo scapparono così da Creta e raggiunsero prima Delo e poi l’isola di Nasso. Qui Teseo, fedifrago, abbandonò Arianna nel sonno, salvo unirsi con sua sorella Fedra: la stessa che, degna figlia di sua madre Pasifae, avrebbe concepito l’incestuosa passione per il figliastro Ippolito. Quest’ultimo, seguace di Artemide e geloso custode della sua castità, la respinse. Allora Fedra si uccise, accusandolo ingiustamente di averla sedotta, cosa che indusse Teseo, vittima di nemesi storica, a mettere a morte il figlio, come ci racconta Euripide in ben due tragedie (una prima, Ippolito velato, non pervenuta, e la seconda, celebre, intitolata Ippolito coronato)
E Arianna? A lei, abbandonata da Teseo, non restò che impiccarsi, ma, in un’altra versione del mito, fu a sua volta oggetto della passione di Dioniso e perciò punita con la morte da Artemide per aver perso la verginità. Altri ancora sostengono, però, che divenne sposa di Dioniso e il suo culto fu celebrato a Nasso, Delo e Rodi.
Dove eravamo rimasti? Ah sì: Dedalo! Minosse volle morto lui, perché sapeva troppo, e suo figlio Icaro, nato dalla unione di Dedalo con Naucrate, schiava di Minosse. Il re li fece rinchiudere entrambi proprio nel labirinto che l’architetto/ingegnere aveva fatto costruire. Ma Dedalo ci mise un attimo a ideare delle ali, due per lui e due per Icaro, che, grazie alla cera, adattò alle loro spalle: così, i due evasero in volo dalla prigione e raggiunsero prima Cuma e poi la Sicilia, dove furono accolti dal re Cocalo.
Secondo un’altra versione, dopo che Dedalo era fuggito da Atene, anche Icaro, considerato inventore dei lavori di falegnameria, ne era stato bandito e si era messo alla ricerca del padre. Fece però naufragio presso l’isola di Samo, dando il suo nome al mare circostante e all’isola di Icaria, sulla cui spiaggia il suo cadavere fu sospinto dalle onde e trovato da Eracle che gli diede degna sepoltura.
Ma sulla fine di Icaro la versione più nota è senza dubbio quella raccontata da Ovidio, nelle Metamorfosi (Libro VIII, vv.183-235). Narra Ovidio che il giovane Icaro, preso dall’ebbrezza del volo, non ascoltò i consigli del padre che più e più volte lo invitò a volare basso, affinché i raggi del sole non sciogliessero la cera che teneva insieme le loro ali. Icaro volò sempre più in alto, sempre più in alto, finché, scrive Dante:
« … Icaro misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui “Mala via tieni”» (Inferno, XVII, vv.109-111).
A nulla, dunque, servirono gli avvertimenti paterni: Icaro precipitò tra le onde, annegando in quello che, da quel giorno, si chiamò Mare Icario.