Riflessioni intorno a una delle domande da sempre più ricorrenti nell’animo dei credenti

“In quel tempo, Pietro, prendendo la parola, disse: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?» E Gesù disse loro: «In verità vi dico […] Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna.»”
(Mt 19, 27-29)

Lungo la strada verso Gerusalemme, attraverso le brulle terre arse dal sole della Giudea, Egli continuava, instancabile, ad insegnare. Le Sue parole, così cariche, attraenti, non trattavano di astratte verità teologiche e dottrine incomprensibili alla folla. Egli ammaestrava la gente parlando di amore, di fraternità, rispetto, onestà, purezza, di umiltà, misericordia.

All’orizzonte, ormai, si stagliava la sagoma del giovane ricco, mentre si allontanava scuro in volto, troppo legato ai suoi preziosi tesori materiali per rinunciare ad essi e seguirLo.
Pietro, tuttavia, ancora preso, guardando fisso il volto del Maestro, con la fronte aggrottata, Gli pose quella domanda. “Che cosa ne otterremo?” chiede, impetuoso, di scatto, in tutta la sua umanità. “Quale sarà la ricompensa per i nostri sforzi, tutti i sacrifici che per Te, solo per Te, abbiamo fatto? Per me, Simone, che Tu hai voluto diventassi Cefa, Pietro?”
“Riceverete cento volte tanto ciò che già possedete su questa terra e, dopo la morte, otterrete la vita eterna”: questa la risposta secca, diretta, senza esitazione di Gesù. Una risposta che rimbomba nel tempo, la cui eco si è trascinata nei secoli, per giungere fino a noi a scuoterci, nella nostra umanità stanca, atrofizzata, ma non ancora morta e pronta a destarsi in nome di un perché.

La scelta della sequela, l’imitare il Suo modo di guardare, di parlare, ascoltare e pensare per fare esperienza del centuplo richiede inevitabilemente una presa di posizione radicale, che si formula, per usare una espressione di san Paolo, nel bivio fra l’uomo vecchio e l’uomo nuovo.

Scegliere di andar dietro Cristo comporta necessariamente un lavoro interiore di abbandono dei modi di fare, di agire, di pensare creati secondo la propria misura. Per fare esperienza di quel cento volte tanto bisogna inevitabilmente spostare lo sguardo da se stessi a Lui, per cui non si è più il fulcro del proprio universo ma è Lui, il Suo messaggio, la Sua parola che moltiplicano fino a cento volte ogni dettaglio dell’esistenza.

L’uomo inizia ad amare tutto il centuplo perché è investito dal Suo amore senza misura, inizia a constatare che è possibile una gioia, molto più grande e appagante delle vane illusioni delle cose, impara ad amare la bellezza e la potenza del dolore e del sacrificio. Tutto nel Suo nome. Il vivere con gli occhi fissi su di Lui costa fatica, impegno, perché spesso è difficile capire, è difficile mantenersi sempre tesi verso l’Alto, è complicato mettere insieme i pezzi di un puzzle molto più grande di sé.

Commoventi sono le parole del Poverello di Assisi, san Francesco, che di fronte al mistero delle Stimmate prega: “Ti rendo grazie, Signore Iddio, per tutte queste mie sofferenze. Ti prego anzi, mio Signore, di moltiplicarmele cento volte se ti piacerà. Mi sarà graditissimo che, infatti, in mezzo ai dolori non mi risparmi, dal momento che l’adempimento della Tua Santa volontà è per me fonte suprema di consolazione.” (Bonaventura, Biografia di Francesco d’Assisi)

L’unica certezza che accompagna l’uomo in questo cammino di riscoperta della vita nella sua pienezza è la fede in una Presenza che viene a colmarlo, ad aiutarlo, a sostenerlo in questa sfida che, da solo, sarebbe impossibile affrontare. Una Presenza che egli non vede con i suoi occhi, non sente con le sue orecchie ma che percepisce nel profondo del suo cuore, sempre teso alla speranza e desideroso dell’infinito.