
Leggendo “A Silvia”
Per fare il punto di ogni situazione, sia essa materiale e sia umana, bisogna adoprare un metro sapiente e conoscitivo per raggiungere un risultato, se non altro senza quella presunzione, per il secondo caso, soddisfacente e affermare, poi, d’aver compreso lo stato d’animo di una persona.
Ogni peculiarità implicita di un personaggio, poi, porta a meditare prima di dare un giudizio o rafforzarne quelli già espressi dagli altri, siano stati questi: critici, letterari o quanto di meglio s’incontra nel settore in questione.
Per parlare di G. Leopardi occorre, prima di tutto, conoscere sé stessi dal punto di vista sentimentale in modo che, avendo conoscenza dei propri sentimenti, uno può azzardare un lieve paragone pur mantenendo sospesa ogni conclusione: come si fa quando non si riesce, perché impossibilitati, oltre l’orizzonte virtuale delle proprie capacità o di quelle umane nel contesto cosmico.
Nella poesia A Silvia, il Leopardi si ripete nel dolore, nell’angoscia, nell’inquietudine, per uno stato umano, sì incerto, vago, aleatorio da far porre continuamente domande senza riceverne risposte.
Se la vita è un dono, come mai non dovrebbe procurare sollievo, piacimento, appagamento sostanziale dell’essere? La sublimazione è un concetto sovrumano e va oltre l’essere materialistico.
L’uomo rimane da solo con i suoi problemi, i pensieri sospesi, gli inappagabili desideri e le contraddizioni che la natura sembra ostentare, quale fosse una sadica matrigna che fa, del dono vita, un interminabile Calvario.
“Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi, ridenti e fuggitivi?” No, si direbbe, in quanto si è mal preparati quando si è ancora giovine, allorquando tutto ci sembra roseo e il futuro pieno d’avvenimenti piacevoli ma, solo perché pensati, modellati, plasmati secondo i nostri desideri, quasi fossero realtà.
Ma, all’apparire del vero, della realtà, ogni speranza crolla e v’è la morte ad indicare la tua tomba da occupare.
Il pensiero di Leopardi, più che pessimista, è da considerarsi come la ricerca di un perché, un motivo valido che possa convalidare la tesi di madre natura, piuttosto che matrigna.
Il suo malcontento parte e arriva da lontano. Arriva a ridosso di una scarsa e mal “cullata” fede senza la quale l’uomo non può darsi o pretendere risposte.
Egli, avendo accettato dapprima il pensiero rousseauniano, man mano, non solo l’ha rifiutato, ma ha persino affermato che lo stesso nascere è una punizione in quanto già fin dalla nascita l’uomo incomincia a soffrire. “Nasce l’uomo a fatica ed è rischio di morte il nascimento, porta tormenti per prima cosa…”. (Da: Canto notturno di un pastore errante dell’Asia).
Dal male soggettivo egli passa al male comune, a quello mondiale fino al male cosmico, coinvolgendo, così, ogni singolo essere vivente e dando alle cose, (per fatto scontato?) quell’inutilità perenne da fare apparire pure il moto degli astri, un caso amorfo.