
«Sì che, veggendola io sospesa e vaga,
fecimi qual è quei che disiando
altro vorria, e sperando s’appaga»
(Paradiso XXIII vv.13-15)
Canto ventitreesimo, si fa presto a fare i conti: siamo ormai entrati nella terza ed ultima parte della cantica del Paradiso ed è chiaro che tono e stile si debbano adeguare alla materia che si dispiega fino al cielo dell’Empireo.
Basti dire che qui non ci attende un incontro con un beato qualsiasi, sia pure di rango elevatissimo. Qui Dante, continuando a riconoscere l’inadeguatezza dei propri mezzi e d’altro canto a ribadire l’ineffabilità e assoluta novità della visione, deve misurarsi, come può, nientemeno che col trionfo di Cristo e l’apparizione di Maria.
Avesse pure tutte le Muse a sua disposizione, nulla potrebbe.
La prima avvisaglia è già nel fatto che Beatrice inviti il suo amato a fissarla mentre sorride: quasi a dire che Dante è già avanti nel suo trasumanar (Paradiso I, v.69) e può ora sostenere ciò che prima gli era impossibile.
D’altra parte, Dante deve subito ammettere che non è in grado di descrivere neppure il sorriso di Beatrice: figuriamoci se possa farci vedere, attraverso le sue parole, la figura di Cristo e, con Lui, il bel giardino che sotto i raggi di Cristo s’infiora, cioè la schiera dei beati, e in più Maria, la rosa in che ‘l verbo divino / carne si fece, e ancora gli Apostoli, li gigli al cui odor si prese il buon cammino (vv.71.75).
La sfida è tale che persino gli ingressi dell’arcangelo Gabriele, pazzo d’amore per la Vergine Madre (Paradiso XXXIII, v.1), tanto da volarle vorticosamente intorno, o di Pietro, colui che tien le chiavi di tal gloria (v.139) passano in second’ordine.
In tali e tante epifanie, detto che il tema della maternità attraversa tutto il canto, la parola su cui cade la mia attenzione è disiando:
«Sì che, veggendola io sospesa e vaga,
fecimi qual è quei che disiando
altro vorria, e sperando s’appaga»
(Paradiso XXIII vv.13-15)
In libera parafrasi: tanto che, al vederla così, in attesa, mi feci come colui che desidera ciò che vorrebbe, e ancora non possiede, e tuttavia si sente colmato dalla speranza.
Come chi desidera. Dante si riferisce a Beatrice che attende l’avvento di Cristo, Sole all’orizzonte.
Io, ben più modestamente, sono andato con pensiero alla nostra condizione umana. Che è sempre fatta di sete, di sguardo, di attesa, di incompiutezza, di finitudine.
E di desiderio. Sì, perché cessa di essere uomo chi cessa di aver fame e sete delle stelle: de-sideribus… Credo ci sia una quota di disumano nel privarsi o nel privare un uomo o una donna della speranza.
In più di un’occasione ho avuto già modo di scrivere: siam polvere di stelle, materia fragile, ma luminosa. Tocca non dimenticarlo mai.
Punto.
Marcella Tarozzi Goldsmith: «Che ingenuità credere che ci si possa limitare a dei desideri descrivibili».
Tiziano Terzani: «Avevo da scegliere: potevo essere il me che desiderava, o il me che rideva del me che desiderava».
Alda Merini: «Ho un solo desiderio per l’aldilà, che non vengano a cercarmi i rompiballe».
Il desiderio è sempre accompagnato dalla speranza di poterlo raggiungere per soddisfarlo… un’esistenza senza desideri significa abbandonarsi all’inerzia,a un fatalismo privo di emozioni e sentimenti.
La speranza aiuta a vivere e a superare quel senso di impotenza e fallimento dati dagli eventi negativi della vita
Grazie Angela: siamo polvere di stelle….