
Pellicola lenta e ambiziosa
Salvatore Todaro (Pierfrancesco Favino) è un comandante di sommergibili della Regia Marina che, durante la Seconda Guerra Mondiale, portò in salvo 26 uomini che avevano provato ad affondarlo. La storia vera del “Comandante”, film diretto da Edoardo De Angelis, traccia la linea che separa patriottismo e soccorso in mare, un’indole sciovinista che incarna lo spirito assistenzialistico del valore umano italiano.
Co-sceneggiatore insieme allo scrittore Sandro Veronesi, De Angelis compie un lavoro accurato nei dialoghi, snaturando, però, le ambientazioni a mere ricerche digitali che creano cornici da tempesta perfetta, una sorta di metafora, un effetto speciale all’inquietudine che si incastra nell’animus pugnandi dei soldati italiani, satolli di dignità e patatine fritte, commistione di ingredienti nostrani e belgi che danno vita ad una ricetta, croccante nelle intenzioni, ma insipida nelle azioni.
Fornire aiuto “perché siamo italiani” è la più alta giustificazione ideologica a cui si possa anelare, persino oggi, contro tutte le politiche protezionistiche, contro i sovranismi rei di stragi come quella di Cutro, come gli sbarchi, vergognosamente respinti dal Governo, di Lampedusa, come cpr albanesi dove scaricare uomini e colpe. “Comandante” rappresenta l’archetipo dell’integrazione, un abbraccio ecumenico che profuma di riconciliazione e perdono, è l’apparenza che soccombe alla sostanza, all’essenza di essere uomini di mare, uomini duri, uomini veri.
“In mare, siamo tutti alla stessa distanza da Dio, a distanza di un braccio. Quello che ti salva”. Il ritratto che Favino fa di Todaro è di un pacifista para bellum, ferisce senza uccidere, infermo alla colonna vertebrale, dopo un lancio dall’idroscalo, rinuncia alla pensione e al Fascismo con la stessa dignità, non è un “mona”, ma un credente credibile che prega croci di corallo e, come Sisifo, trasporta massi, sacrificandosi e accettando il proprio destino.
“Comandante” scorre sul grande schermo con la lentezza che lascia presagire un’agonia disarmante, una Torre di Babele nella quale i dialetti sono paradigma di differenze unificatrici, solidità contro l’instabile segno del destino, una coesione di elementi antitetici al servilismo, disattendendo gli ordini per la naturale caducità dei conflitti bellici, un’erba infestante piantata fra gli anacronistici giochi di potere, fasi oniriche di arti amputati, morte predetta da Morfeo, una pellicola troppo ambiziosa per catturare l’attenzione dello spettatore e per coltivare la speranza che israeliani non attacchino palestinesi e che russi non lascino annegare ucraini (episodio, invece, accaduto a parti invertite).