Quello di Pino Roveredo
Ci vorrebbe un sassofono quando le bave dell’attesa sembrano ingoiarsi l’esistenza, quando la nausea scuote la gola e succhia lo stomaco, quando le ore si moltiplicano per una stanchezza infinita.
Ci vorrebbe un sassofono quando la rabbia odora di malattia in un silenzio senza equilibri mentre il vento soffia per far scavalcare il grigio eppure il mare è così lontano da non poter abbracciare la pelle.
Ci vorrebbe un sassofono quando gli occhi non si asciugano e il pianto è bestemmia, quando il sorriso è una parentesi di coraggio, quando il per sempre nella buona e nella cattiva sorte è una sinfonia mal riuscita.
Mi piace introdurre così il romanzo Ci vorrebbe un sassofono, edito da Bompiani e scritto da Pino Roveredo, autore con numerose pubblicazioni in attivo e sempre attento agli ultimi negli ospedali psichiatrici, così come ai tossicodipendenti, rivelando una notevole profondità e nobiltà d’animo.
Claudia, la protagonista, si ritrova ad assistere il marito Enrico, da cui è separata, ricoverato in gravi condizioni. C’è chi parla di dovere morale e chi, come la figlia Giada, da sempre infilata nella protezione e adorazione paterna, le impone di farlo. Quanto è ingiusto e faticoso l’amore di madre quando i punti di domanda sono smarrimenti del petto e la dignità è il legame continuo con il dolore.
La vita strangola, condanna, ansima nei residui di un affannoso respiro, fra quattro mura e bip senza pausa, martellanti come chiodi nel cervello in un girotondo di memoria senza restrizioni. Il letto dell’urgenza da un lato e una squallida storia d’amore o non amore dall’altro: si può impazzire di questa maledetta infelicità, si può morire dentro per i temporali della verità quando l’esigenza dovrebbe essere un nuovo inizio senza più bugie e tradimenti. La menzogna è l’arroganza di chi non sa concedersi diversamente scegliendo l’agonia delle debolezze.
L’autore ci insegna che bisogna sognare sogni veri e non fabbricare sconforti e che la bellezza non ha bisogno di parole inutili ma di essenzialità aggiustando i tempi, gli sguardi, la paura di non sentirsi adeguati.
Claudia incassa l’amarezza della memoria specchiandosi in un passato con cui urge un confronto. Quanto grande è lo strappo che lascia chi brucia un amore portandosi via il cuore, la felicità e la voce di chi davvero ama?
“Quando nasciamo tutti, indistintamente, abbiamo a disposizione mille abbracci, e quando e se li terminiamo, possiamo raccogliere nell’aria quelli distratti che non sono stati mai consumati.”
Claudia ripensa spesso agli abbracci sparsi e seminati nella vita, a quelli cresciuti, a quelli che sono morti per la mancanza di un intreccio con la voglia dello scambio, a quelli dati con cuore senza ritorno. La rigidità di Enrico e la stessa rigidità di Giada le piegano il cuore senza scuse mentre la notte schiaffeggia e insulta.
La vita deve essere necessariamente un risveglio, una domenica di sole, una musica dondolante, il miracolo di una rivoluzione, il fuoco di una protesta fuori da una stanza di emergenza. Una boccata di fumo oltre il rumore molesto delle macchine, un caffè bollente e la malattia della tristezza nell’immobilità di ogni dispiacere: l’autore analizza con abilità chirurgica la saturazione di una donna che vorrebbe ballare sulla musica del vento, scavalcare le nuvole, toccare il sole e mangiare le stelle prima che diventino bugie.
Il lettore è piacevolmente travolto da ogni trapasso luce-ombra e viceversa accompagnando il vuoto e il sassofono. Ci sono storie scritte dalla parte sbagliata e momenti di beatitudine: rassegnarsi alla tristezza non è una soluzione.
“Imagine there’s no heaven
It’s easy if you try…”
La vita gira intorno, le parole non parlano, la libertà è leggera, più del sogno di una vittoria.