Dall’oasi di democrazia dell’Europa occidentale nella quale viviamo, guardando oltre i nostri confini realizziamo che lo sviluppo democratico tanto auspicato e tanto sofferto, dopo due grandi guerre, non ha avuto ancora l’evoluzione e l’espansione attese. La liberal-democrazia che dal secolo scorso ha preso una naturale leadership nella coscienza delle popolazioni, soprattutto quelle più martoriate dalla guerra, ha fermato i suoi effetti contaminatori al solo occidente. Il Medio Oriente che ha vissuto una esaltante primavera con le rivoluzioni del 2010, oggi sembra più che mai impaludato in una difficile quanto impossibile guerra civile. Tutto faceva sperare in un Mediterraneo rinnovato e democratico, dove finalmente i popoli ed i governi si sarebbero spesi per migliorare le condizioni di vita, per gestire al meglio le ricchezze del sottosuolo, per frenare l’emorragia della popolazione che fugge verso l’Italia e l’Europa. Ma non è stato così e per molto tempo non lo sarà; dopo l’entusiasmo per la liberazione dalle dittature irachene, libiche, tunisine ed egiziane, i Paesi occidentali hanno toccato con mano la complessità delle situazioni locali e soprattutto l’abisso che separa la cultura e gli interessi mediorientali dalla nostra.
Allora il tema è : la nostra democrazia serve? È un prodotto esportabile o è semplicemente un meccanismo politico che possono assemblare solo le popolazioni dell’Occidente dove la civiltà ha avuto un complesso di elementi favorevoli, ed un percorso particolarmente rilevante riguardo alla partecipazione laica alle sorti della vita pubblica. Forse in quei Paesi le regole democratiche, che noi già con difficoltà riusciamo a reggere sulla base di un forte substrato economico, non hanno un senso e non hanno un humus storico; non hanno, altresì, un solido sistema economico sul quale basare saldamente lo sviluppo. L’Africa, d’altra parte, ci dimostra come colpi di stato e guerre civili sono all’ordine del giorno, ma di regole democratiche se ne parla solo saltuariamente. Le elezioni quando ci sono, in gran parte vengono pilotate o sabotate dal dittatore di turno e comunque generano, il giorno dopo, una serie di forti conflitti interni.
L’Oriente in gran parte, con la sua enorme popolazione sta a metà strada verso quella liberal-evoluzione che porta ad un regime democratico. Il Giappone che ha conosciuto e superato in un processo dialettico tragico, con l’ultima guerra, le grandi fasi della dittatura, del nazionalismo e dell’espansionismo, ora vive un’età di intenso sviluppo democratico, che però si è evoluto senza cloni occidentali, ma adeguandosi ai tempi, alla cultura ed alla civiltà del proprio popolo. E che dire della Cina sulla quale sono puntati tutti gli occhi dei portatori sani di democrazia e libertà ? I cinesi contano una popolazione di 1,3 miliardi di individui, 1/5 di tutto il pianeta. Parlare di libertà a chi moriva di fame aveva un sua ragione, ma di certo non avrebbe risolto il problema. I cinesi hanno pensato innanzitutto a garantirsi solide basi economiche, e poi ai mutamenti politici. Ora rappresentano una grande potenza economica, temuta ed invidiata da tutto il resto del mondo. Oggi al governo cinese va riconosciuto il merito, tra le tante accuse, di aver traghettato (e lo sta facendo ancora) il Paese da un regime destinato all’isolamento ed alla inevitabile caduta, ad un sistema ove si aprono scenari economici straordinari, e dove sostanzialmente, con tutte le disparità ed ingiustizie che vogliamo, una popolazione spaventosamente numerosa riesce ad assicurarsi la sopravvivenza; una parte di essa molto di più.
Lo stesso dicasi dell’America latina nella quale forme di democrazia si stanno assestando, con diverse varianti populistiche, dopo l’ondata del nazionalismo e delle inevitabili conseguenze dittatoriali. Si consideri che in Europa, dopo l’era di Pericle nell’antica Grecia ed i tempi della Roma repubblicana, ci sono voluti duemila anni per ritrovare le regole della democrazia e dei diritti umani. Ora ci si chiede se l’Occidente debba continuare questa missione di neocolonialismo democratico o se, tutto sommato, appare più sensato lasciare alla libera autodeterminazione quei Paesi che nel resto del mondo stanno affrontando le drammatiche turbolenze del cambiamento. Paesi i cui confini spesso sono stati tracciati sui tavoli dei dominatori, senza tenere conto delle popolazioni e delle vocazioni storiche dei territori. Paesi che hanno tradizioni e culture lontane anni luce dalla nostra.
Questa è una domanda che crea grandi dispute e contrasti tra intellettuali e politici, e forti tensioni sulle iniziative dei Governi. Che fare? Assistere le popolazioni nei loro tormentati percorsi e lasciarli liberi di decidere il loro destino; e quando si dice liberi, si intende soprattutto nessuna ingerenza di Paesi interessati più allo sfruttamento delle risorse che a ideali libertari. Così ci sarebbero certamente meno stragi tra la popolazione inerme e passiva, meno devastazioni; ma d’altro canto meno diritti umani e un lasciapassare per le fazioni più violente e militarmente più organizzate, o più foraggiate dalle potenze straniere. E poi i diritti umani che fine fanno quando i bombardamenti che non conoscono le regole democratiche, colpiscono donne,bambini e uomini inermi ? Che serve invocare regole e diritti inviolabili quando si fa solo il gioco degli interessi economici delle multinazionali?
”Il valore fondamentale è sempre stato ed è l’indipendenza nazionale, ma le divergenze cominciano sul problema dell’uso della violenza rivoluzionaria o terroristica, sul rapporto tra modernizzazione (occidentale) e difesa di tradizioni autentiche”(K.D. Bracher, Il Novecento, Laterza, Bari 2006). Siamo di fronte ad uno degli interrogativi più inquietanti ereditati dal secolo scorso, e tristemente attuali dall’inizio del XXI, cui non si trova risposta degna di condivisione. Schieramenti umanitari che denunciano le gravi conseguenze dell’intervento militare da qualsiasi parte venga; contrapposti allo schieramento conservatore che vede in ogni rivoluzione ed in ogni parte del mondo, un pericolo per l’Umanità e per l’economia mondiale.
Allora che fare di questa democrazia, dei suoi valori, dei suoi ideali, delle sue istituzioni, quando sullo scenario del mondo si affaccia una crisi nei Paesi sottosviluppati ? Forse la risposta può essere nella presa d’atto definitiva e risolutiva del fatto che “l’attuale situazione sia il risultato di 10-12 anni di interventismo in M.O. La guerra in Iraq, ad esempio, ha creato 2 o 3 milioni di rifugiati che costituiscono un bacino di reclutamento per i gruppi fondamentalisti”. Sono parole di Jussi Hanhimaki, uno degli autori della Storia internazionale del terrorismo London, Routledge 2012). E che un Paese che attraversa un cambiamento anche in una guerra civile, non va guardato con le categorie occidentali della così detta democrazia, che sfociano inevitabilmente nell’esclusivo intervento militare, di guerra o di pace che sia, e comunque mai efficace; ma va visto come una risorsa per il mondo civile, da aiutare sin dai primi sintomi con tutto il possibile sostegno economico e sociale. Non è passato molto tempo dall’onda lunga dell’aiuto americano all’ Italia del dopoguerra.
Aldo Tota
[Foto copertina: www.nocensura.com ]