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“Devi sorvegliare, avvicinare la legna, alimentare la fiamma e darle aria. Devi curarlo il fuoco”

Mio padre di fuochi se ne intende: quand’era piccolo le cose più belle della vita le ha ascoltate e imparate nelle sere d’inverno, attorno al braciere che riuniva e riscaldava la famiglia. Era un tempo diverso: la memoria era assicurata dalla lentezza e quella della fiamma, testimone di parole vissute, marchiava a fuoco nel cuore gli insegnamenti più veri. La fretta, invece, produce dimenticanza, come scrive Kundera.

E si, perché a bruciare non ci vuole niente. Basta un fiammifero, una sigaretta spenta male e in un attimo tutto è cenere. E nel caso di un caminetto basta accatastare un po’ di legna e accenderla alla meglio: pian piano brucerà. Bruciare è facile, come bruciarsi: nella velocità, nell’invidia, nella rabbia, nell’iperattivismo, che è solo un modo per non rallentare e, quindi, per non ricordare o pensare troppo. A bruciare sono buoni tutti, anche quelli senza fuoco, senza passione, senza emozione; del gelo, difatti, si dice che “brucia” campi, frutti e fiori.

Ardere è un’altra cosa e abbisogna di perizia. Un fuoco che arde è un fuoco progettato, preparato, assistito, curato, non lasciato al caso, restituito alla lentezza dei processi che assicurano i risultati, magari dopo e proprio in virtù dei diversi tentativi, delle perdite prevedibili e degli imprevisti incalcolabili. Un fuoco che arde ha bisogno di legna ben conservata, asciutta e secca, rami più esili per far partire la fiamma e tronchi spessi e robusti per prolungarla. E poi ci vuole l’ossigeno: nemmeno il fuoco vive di sola forza, necessita di aria, di aperture. Solo così può illuminare e riscaldare per molto tempo.

Ci sono stoppini vivaci e fiammiferi scintillanti, ma incapaci di durata, inaffidabili, scostanti: si consumano in men che non si dica. Sono come quegli entusiasmi vuoti, che lanciano in alto e lasciano nel vuoto, come se volare fosse questione di alienazione dal mondo; i salti di gioia, invece, ricordano e dimostrano sempre che ogni slancio deve riportare a terra, alla concretezza, alla verità. Oppure sono come quelle emozioni a buon mercato usate per non crescere mai, per non assumersi le responsabilità di sentimenti adulti, capaci di scelte mature nelle quali, evidentemente, non si può inseguire e tenere “tutto quello che emoziona a pelle”. Perché la maturità è passione viscerale più che epidermica, costantemente alimentata, ardente, purificata sia dalla tentazione di diventare coerenza astratta e fredda sia dal pericolo di una deriva fanciullesca.

Eppure la parola bruciare, vicina etimologicamente a “brace”, comunica vitalità scoppiettante; ardere, da “aridus”, non lascia la stessa sensazione di vita, anzi. Forse perché ardere comporta una consumazione, un dispendio di energie a volte estremo. Chi è impegnato a farsi dono lo sa: si esce sempre un po’ inariditi dalle giornate, con la sensazione di aver dato fino allo stremo delle forze e fino all’ultima goccia di tempo e di combustibile esistenziale. Ma contemporaneamente sereni, risuscitati dallo stesso calore e dalla stessa luce effusi.

Certo anche bruciare consuma, ma chi si limita a quello si scotta completamente, non regge perché si sforza, ride nervosamente e corre, e alla fine si incenerisce nella lamentela, nell’assillo, nel piagnucolamento: l’immediatezza delle scintille resterà per sempre il suo sogno e il suo stile.

Mio padre sembra avermi consigliato l’altra strada. Lo fa da una vita, e non solo con le parole.

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8 COMMENTI

  1. Non c è una cosa più bella della riconoscenza dei figli verso i genitori…… È quanto di più bello un genitore possa ascoltare…. Testimoniare con la vita!
    GRAZIE MICHELA..

  2. Giorno Michela. Ogni tanto mi capita di leggere e di voler rileggere per riuscire a trovare, parola per parola, quel senso sconosciuto da dare alla vita. E di trovarlo come in questo momento. Una specie di piccola benedizione laica. Esiste la “grazia” e tu l’hai poggiata su quello che hai scritto. Bisogna solo volerla raccogliere. Buona giornata

    • Vivo la tua stessa dinamica e trovo ciò che descrivi in quelle relazioni fondanti, dove la fiamma del pathos tiene al caldo gli inverni quotidiani. Grazie per la condivisione e un caro saluto, nella speranza di un passaggio sempre più frequente di benedizioni

  3. E mi hai riportata al volo ad Ungaretti:
    Sei comparsa al portone
    In un vestito rosso
    Per dirmi che sei fuoco
    Che consuma e riaccende
    (12 settembre 1966)
    Grazie a te, dunque, per questo viaggio nel tempo.
    Acca

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