Lettera aperta di un docente al Presidente Mattarella

Caro Presidente,

Mi perdonerà se nell’oggetto della mail Le ho scritto urgente ma, davvero, non posso immaginare un altro aggettivo per esprimerLe quello che sento dentro, da cittadino prima, futuro padre e insegnante a scuola poi. Il momento che ha vissuto (ma che, forse in realtà aveva già pensato in cuor Suo) quando ha capito che la scelta andava nuovamente sulla Sua persona sarà stato bellissimo. Ma ne immagino anche la frustrazione e la paura. Presidente, se davvero questa paura, questo timore e queste sensazioni le ha vissute, sappia che sono i nostri timori e le nostre sensazioni. Al di là di ogni appartenenza politica, quanto prova adesso non è che un piccolo segno di una benedizione per il Suo essere lì, in questo momento a guidarci e ad esprimere, con i Suoi modi discreti e riservati, l’amore per la nostra Italia.

Si chiederà perché io debba scriverLe. Il motivo è semplice. Da insegnante in questi giorni ho dovuto esercitarmi a fare il contadino. Io che non amo particolarmente questo lavoro agricolo l’ho fatto, ma con sementi di diverso valore da quelle, semplici e piccole, che si inseriscono nei solchi di aratri. No, tutt’altro. Le sementi vengono dal lavoro in cui sono stato scelto e in cui metto al servizio della mia e della nostra Nazione le mie letture, le mie passioni, la mia voglia di non perdere nessuno nei meandri di un tempo in cui il proprio tempo, quello della persona! si frantuma in migliaia di azioni senza senso, in pochi veri riferimenti, in incapacità di lasciarsi guidare dalle coscienze ma molto di più da sentimenti di distacco, di isolamento, di ansie per cui sembra che mai na gioia, come recitano i ragazzi, si insinui nelle strade del vivere.

Eppure, Presidente, la maratona elettorale per eleggerLa i ragazzi, gli alunni che lo Stato e Dio mi hanno affidato, l’hanno seguita. E la domanda è stata quella di senso, quel senso per cui la politica possa essere sinonimo di abbraccio con le fragilità della loro vita, di un ascolto incisivo dei loro sogni, di custodia dei loro progetti da non infrangere, quasi cristallo delicato, contro pareti di marmo bello in apparenza ma freddo, senza calore.

Io, Presidente, ci provo. Ci provo a mostrare che la politica non è cosa di poco conto, un teatrino in cui ognuno recita una parte guidata da fili invisibili di una economia che, in un click, può gettare nel baratro esistenze e aziende, un miscuglio di opinioni in cui solo il potere è ciò che conta. No, Presidente. No! Mi rifiuto di credere che amministrare la cosa pubblica sia solo un mercimonio di talenti sprecati, di sottigliezze burocratiche per cui una legge che ama la vita sia spezzata sull’altare delle convenienze politiche. Mi rifiuto di credere che la persona non sia il centro dell’interesse, dell’essere al servizio, di chi ci governa ma che sia divenuta solo espressione becera da cui allontanarsi. Bisogna ormai essere ostetrici di verità sull’uomo. Ne è il tempo.

Io ci provo a lottare contro un sistema che riduce la vita di Simona, la vita di Ilaria, di Carlo, di Matteo e di tutti i miei alunni a semplici e vaghi contenitori di conoscenze disperse nei meandri di contenitori stagni di saperi inutilizzabili e ripetitivi. Io per questo, ad esempio, chiedo loro di immaginare, di creare, di non spegnere la creatività che hanno dentro, di non deludere le intelligenze (più di quelle del pedagogista Gardner ne sono certo) che abitano le nostre aule e i nostri corridoi. In questi giorni ho chiesto loro di creare pubblicità con oggetti immaginari per spiegare le tecniche retoriche dei Sofisti, faccio loro rappresentare in prima persona personaggi storici e filosofi, faccio loro rendere note le bellezze delle pagine dei Platone, Agostino, Erasmo, faccio loro scrivere testi sul senso della vita e sul perché si debbano seguire testa o ragione. Questo in ossequio alla straordinaria colazione che faccio ogni giorno, dove fra il the e una brioche è il sapore della Costituzione che, seppur non perfetta come ogni cosa umana, esprime il profumo dei valori che solo una guerra aveva spezzato e distrutto.

Qualche giorno fa una mia alunna è venuta accanto a me e con la sua voce delicata e dolce mi ha parlato di abissi che la sua psiche sta vivendo. E tu, povero insegnante che devi lottare con registri e voti, con programmi e scadenze improrogabili, ti rendi conto che rischi di non capire che nelle pieghe delle esistenze di quei ragazzi c’è un cuore che batte e non un numero di registro o di matricola marchiato a fuoco. Capisce Presidente? Lei è colui che li rappresenta dovunque, da quando accoglie ministri e Capi di Stato a quando, a sera, abbraccia il tempo di riposo (poco immagino) che Le viene donato. Cosa direbbe a chi le chiedesse il senso della politica? I ragazzi mi hanno seguito in silenzio quando ho tralasciato le bellissime lezioni (bellissime per me, certo) su Nietzsche, sulle guerre del Settecento. La vita dell’ora e del qui non si può lasciar passare senza che non tenga traccia dietro di sé. La vita, quei muscoli cardiaci e quei valori che battono fra i banchi io li sento dentro me, quasi a dire, come la poetessa che ho citato l’altro giorno a scuola parlando di amore “senti come mi batte forte il tuo cuore”.

Sì, Presidente, chi insegna ha il privilegio di ascoltare cuori e sogni. Di sostenere passioni e progetti. Di vedere il futuro che cresce inesorabilmente anche quando la politica non forma più se stessa. Il problema, Presidente, è che oggi non formiamo più alla politica alta ma a quella spicciola degli schieramenti. Può un quadro del genere risultare alettante per chi poi si deve impegnare? A scuola, l’ultimo anno delle superiori se insegno storia, la prima cosa che faccio vedere loro è la sequenza con cui Frajese portò nelle case degli italiani la tragedia di Via Fani. Mostro quei rivoli di sangue dai corpi di chi in quello Stato ci credeva inzuppare l’asfalto. Non faccio altro che ricordare gli ultimi che sono ultimi per tutti, gettati via nel magazzino delle cose indicibili, come coloro che per la giustizia hanno perso la propria vita, dai Falcone ai Borsellino, dai Chinnici ai Livatino fino a suo fratello. Io ero lì presidente, anche se non ero nato. Sono lì Presidente mentre vede quel corpo dilaniato, mentre un sorriso che stava vivendo, apprezzando magari il venticello che spirava, riassaporando qualcosa di buono mangiato la sera prima, era nella sua mente. E la vedo sostenere quella carne dilaniata da un revolver che aveva spento per sempre gli occhi lucidi e vivi di Piersanti. Sono lì con lei anche se non c’ero, sento la sua rabbia e anche il suo chiedersi il perché. Qualcuno le avrà detto che a tutto c’è senso. Il senso lei ce l’ha e lo vive stando in quelle sale del Quirinale. Presidente, le faccia vivere a chi lotta per la vita. Lasci quelle stanze e viva fra la gente. Lasci quelle stanze ai volontari, a chi negli ospedali dona un sorriso, a chi vive le periferie esistenziali di queste nostre città ricche di asfalto ma poco di idee, a chi si spende per la ricerca magari con poco denaro a premiarlo, agli insegnanti che gettano sudore per custodire tempi e desideri, al povero che è un pugno nello stomaco di chi applaude alla bellezza di aver fatto la scelta giusta non sapendo scegliere.

A questa scuola che vivo, Presidente, manca la forza di sostenere le ore e i giorni di momenti di vita destinati a perdersi e a mai più ripetersi se non si interviene a creare di ogni ora l’evento stesso in cui là sei chiamato a donarti. Con tutto te stesso. E questo donarsi, odiernamente, è una montagna da cui scivoli. Specie se mancano gli strumenti. Sappia che ho scelto, prendendomi anche le prese in giro dei colleghi, di acquistare, a caro prezzo, un proiettore professionale per innovare la didattica che spesso sembra rimasta a modelli frontali ormai non necessari. Alla domanda “chi te la fa fare?” ho sempre risposto con un sorriso e a volte, a chi mi conosce bene, ho detto che non possiamo togliere la passione educativa del nostro lavoro, che non possiamo limitarci allo stipendio da portare a casa ma che dobbiamo allargare la nostra veduta all’investimento che possiamo fare. Preferisco essere sherpa insomma che qualcuno che si copre il viso e non guarda l’anima nello sguardo dei ragazzi. Che cosa ne sappiamo se la visione di qualcosa, di una frase, di una immagine non sia radice di nuovi artisti, di nuovi medici, di nuova classe dirigente? A questo associ che a 41 anni suonati continuo a studiare, accumulando master anche se non mi servono più per le graduatorie, pagando anche di più delle 500 euro che ci vengono elargite e sottraendo anche risorse alla famiglia per loro. Per chi vedo crescere e per cui spezzo il pane delle mie letture e della mia fede che Qualcosa di più grande esiste e ci chiede di spenderci dove siamo. Per quel futuro che tutti ignorano ma che si palesa in occhi che scrutano orizzonti che vogliono raggiungere ma in cui noi mondo adulto inseriamo muri e reti, affermando che i sogni non servano a nulla.

Mi viene il magone a pensarci ma sappia, Presidente, che non è normale che a pochi chilometri da dove vivo e lavoro esistano scuole in cui i bambini, per una economia che ammazza dalla culla e distrugge l’aria, non possono respirare bellezza ma solo fumi, non possono tirare un calcio a un pallone. Quelle storie mi appartengono, sono dentro me, senza che ne conosca una sola persona. La politica è divenuta non empatica, non si esprime altro che in esitazioni di fronte alla persona che soffre. Se un calcolo economico prevede che in 10 anni tutto passa in quei 10 anni suoi nipoti, figli di questa Italia saranno uccisi da esalazioni di veleni gettati nell’aria, a disconoscimento dei valori fondamentali della Costituzione. Così come pure Le appartengono le angosce, le vite spezzate di chi in quel mostro creato sulle sponde dei due mari conosce casse integrazioni e paure. Venga qui la prossima volta senza che nessuno lo sappia. Si faccia ospitare ai Tamburi, e veda che significa dover lottare per sopravvivere e poi ritrovarsi, per un tozzo di pane, a donare il voto al primo pirata di sogni che vuole giungere a Roma, magari a votare e a bloccare leggi per la persona, per la vita. Venga Presidente come speranza per chi sa che nessuno arriva per caso in un luogo e lei, che è credente, sa bene che se è lì un motivo ci sarà, una scelta è stata fatta su di Lei.

In questo settennato che si accinge a vivere Le auguro la sana inquietudine di chi dovrà ogni giorno accedere nuovamente fiammelle di speranza spente, in cui dovrà asciugare con coraggio le lacrime di chi attraversa strade che sanno di una vita persa, in cui dovrà far comprendere come educare alla politica è politica stessa, investimento sul futuro. Un Presidente non può non soffrire quando le sezioni dei partiti e dei movimenti sono vuote, ai cui muri sono appese immagini di sorrisi ma che risultano pugnalate se lì non si vive, non si toglie la polvere, se non esiste una sedia destinata all’ascolto dei progetti. Presidente quando ho spiegato in questi giorni cosa stesse accadendo a scuola quel silenzio per me è stata la speranza che nulla è perso. Una classe diviene turbolenta non solo perché possono vivere una determinata situazione socio economica, ma anche perché i ragazzi sanno anche discernere se si vuole investire su di loro. Io investo su di loro, credo in loro, anche se gli esempi che ci vengono non sono all’altezza. Può Presidente lottare per la vita come primo momento del suo mandato? Per la vita che si spezza ogni giorno in questa Provincia per fumi che non incensano se non morti che camminano, per polveri che si insinuano anche nei pensieri, per cammini in cui il mare non è costruito anche di raggi di sole ma di petrolio che reca morte. Presidente faccia in modo che non ci siano momenti in cui la scuola sia il fanalino di coda. Lei stesso avrà avuto un docente che ha creduto in Lei, l’avrà spronata a scegliere. Investa in cuore, La prego. Investa in gesti che sappiano di Costituzione, che abbiano il gusto sacro dell’unità inscindibile di spirito e corpo che sono ognuno di noi cittadini. E, soprattutto, non getti via la possibilità di essere ancora di più il segno di una contraddizione fra un modello politico che non sa rigenerarsi e non va oltre l’hic et nunc e un essere politico che non sia un modello fra tanti ma sia il modello, intriso del sapore di sussidiarietà, condivisione, amore per la vita e del sacro essere irripetibile di ciascuno di noi.

Buon viaggio Presidente. Prego per il Suo lavoro.


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Antonio Cecere (1980), docente di Filosofia e Storia presso il Liceo Tito Livio di Martina Franca. Laurea in Filosofia presso l’Università degli studi di Bari nel 2004, con relatore il prof. Francesco Fistetti e una tesi in Storia della filosofia contemporanea su Karol Wojtyla. Appassionato di Bioetica, ha conseguito il Master in Bioetica e Consulenza filosofica a Bari e il Master in Bioetica per le sperimentazioni cliniche e i Comitati etici presso il Politecnico delle Marche oltre a vari perfezionamenti di ambito pedagogico e didattico. Impegnato nella Cisl Scuola, è in Azione Cattolica per cui attualmente coordina il Mlac di Taranto come incaricato. Socio Uciim, insegna filosofia anche agli adulti presso l’Università popolare Agorà di Martina Franca. Fra le sue passioni lo studio della storia, il calcio e la musica rock. In passato, oltre che clown terapeuta presso l'asssociazione Mister Sorriso di Taranto, è stato anche conduttore di programmi radiofonici. Presso il Liceo Tito Livio, da qualche anno, coordina il Progetto Percorsi di Bioetica per avvicinare, attraverso modalità didattiche innovative e con la collaborazione di esperti esterni, gli allievi alla cittadinanza bioetica. Ideatore di vari caffè filosofici nella provincia di Taranto e in Valle d'Itria.