Per gli auguri natalizi, Odysseo ha scelto una foto scattata nel campo profughi di Moira, a Lesbo.
Il commento è affidato alla penna di Renato Brucoli. Non aggiungiamo altro…
Il mio presepe di quest’anno è fotografico. L’immagine è reale: scattata nel campo profughi di Moira, a Lesbo.
La fanciulla-madre, di origine siriana, non è riuscita a fuggire in Egitto sul dorso di un asino, ma ha cercato la salvezza via mare. Ce l’ha fatta per opera dello Spirito Santo!
Suo marito, profugo anch’egli, è in cerca di una sistemazione più degna. Dicono sia palestinese.
Il loro bimbo non è adagiato nella mangiatoia, ma in una cassetta di plastica, sotto una tenda più precaria della grotta di Betlemme. È più povero del Bimbo: senza bue e asinello a riscaldare l’ambiente.
Dovrei andare ad adorarlo!
Non prima di aver osservato, nei confronti di chi specula sulla rappresentazione natalizia fatta di statuine e cartapesta con l’intento di “riaffermare l’integrità identitaria, culturale e religiosa del popolo italiano refrattario agli intrusi” (un esponente del potere politico), che il presepe cristiano richiama il realismo storico dell’incarnazione; e che è densamente popolato, già da 2000 anni, di profughi e migranti. Di popolo in cammino, oltre ogni confine.
“La mangiatoia (ovvero la cassetta di plastica, n.d.r.) è il simbolo della povertà di tutti i tempi. Vertice, insieme alla croce, della carriera rovesciata di Dio che non trova posto quaggiù. È inutile cercarlo nei prestigiosi palazzi del potere, non è lì. È vicino di tenda dei senza casa, dei senza patria, degli intrusi, degli estranei, degli abusivi» (don Tonino Bello).
È nel campo profughi di Moira, a Lesbo di Betlemme, ad esempio. E anche nelle nostre città.