Una raccolta di tre saggi per ripensare il rapporto tra Israele e Palestina, ma anche tra Occidente e Oriente, tra inquilino e inquilino, tra noi e noi stessi…
Tre saggi, il primo dei quali, Cari fanatici, dà il titolo al piccolo ma inteso volume di appena 108 pagine edito da Feltrinelli a fine 2017. Tre saggi che il medesimo autore presenta non come «opere di uno studioso né di un esperto bensì di un uomo coinvolto, e di cui talora sono coinvolte anche le emozioni» (p.9). Tre saggi in cui Amos Oz prende posizione, ancora una volta, 10 anni dopo la pubblicazione di Contro il fanatismo; e in cui lui, ebreo e israeliano doc, non lesina giudizi, espliciti e netti, di disapprovazione della politica di occupazione che Israele porta avanti a danno dei diritti dei Palestinesi.
Per Oz, in realtà, il rischio del fanatismo si annida ovunque: nelle religioni, ma anche in famiglia o nel proprio condominio, ogni volta in cui si pretende di essere i detentori assoluti di un modello di verità, di civiltà, di “democrazia” da esportare e imporre ad altri.
C’è fanatismo ogni volta in cui si dimentica, male diffuso oggi non solo in Israele, che ci sono Tante luci e non una luce, come titola il secondo saggio.
C’è fanatismo ogni volta in cui si perseguono manie di grandezza, pensando che la pace si possa imporre con le armi, secondo le logiche della legge del più forte. Si tratta appunto, come recita il titolo del terzo e ultimo saggio, di: Sogni di cui Israele farebbe bene a sbarazzarsi il prima possibile.
A tal proposito l’autore avverte: «Uno dei tratti distintivi più tipici del fanatismo è il suo fermo desiderio di cambiare te per renderti come lui» (p.25); in tempi in cui tutti accusano gli altri di fanatismo e cavalcano l’onda della paura, magari per vendere più armi e legittimare politiche neocolonialiste, Oz mantiene così la capacità di ricordarci che il fanatico abita dentro ciascuno di noi, quando vanta la superiorità della sua cultura, quando accusa gli altri di ciò che, troppo facilmente, perdona a se stesso, quando, ancora, non riesce a sostenere il confronto perché nasconde sotto una rigida corazza la sua fragilità e le sue paure, la sua incapacità di amare e di lasciarsi amare.
In casi come questo, in tempi come i nostri, poter additare un nemico, è sempre la soluzione più comoda, mai la più sana. Basta dar la colpa agli altri per non doversi guardare allo specchio. Ma intanto il cancro cresce e divora. Non a caso, non sono pochi gli osservatori internazionali che scrivono che lo Stato di Israele sarebbe in seria difficoltà e rischierebbe di auto-disgregarsi, date le molteplici anime che lo compongono, se non fosse per la necessità di “stringersi a coorte” contro il “nemico arabo”.
E poco conta se questo comporta la perdita della memoria, la stessa per cui i sopravvissuti ad Auschwitz comprano una pagina del New York Times per dire a tutto il mondo: «Not in our names: non legittimate nel nostro nome la vostra politica di occupazione della Palestina»…
Amara e disincantata, dunque, la disamina di Oz, conscia che, se Israele e Palestina non ritroveranno la via del dialogo, un bagno di sangue, di proporzioni non immaginabili, potrebbe tornare a scorrere nel Mediterraneo.
Ad un altro scrittore israeliano, Sami Michael, un taxista spiegava durante il viaggio che per portare la pace in Israele «bisognerebbe uccidere tutti gli arabi». Il racconto continua: «Sami Michael ascoltò educatamente finché l’autista non ebbe finito la sua concione e, invece di scandalizzarsi, di confutare o esprimere disprezzo, gli fece una domanda ingenua: “E chi, secondo lei, dovrebbe uccidere tutti gli arabi?”, chiese Michael dopo aver ascoltato le ragioni dell’uomo. “Noi! Gli ebrei! Bisogna farlo! O noi o loro! Non vede cosa ci fanno continuamente?”» (p.30).
Alle parole dell’autista, lo stesso Oz oppone quelle del poeta ebreo Yehusa Amichai:
Dal posto dove abbiamo ragione,
non spunteranno mai fiori a primavera.
Il posto dove noi abbiamo ragione
è pesto e duro
come un cortile.
Eppure, una soluzione deve essere possibile. Per essa, ammonisce infine Amos Oz, occorrerebbe saper «Immaginare il mondo interiore, le idee e anche le emozioni dell’altro da sé: farlo pure nel momento dello scontro» (quarta di copertina).