È tutto impossibile?
Mentre politici e politologi si affannano a cercare la verità di questo ultimo conflitto, i mezzi di comunicazione cercano senza sosta di trasmettere fotogrammi di sogni ormai infranti e di vite spezzate per sempre, e la diplomazia continua senza sosta a tessere fili, se pur deboli, di dialogo e trattative, nella nostra mente si affollano tanti “perché” forse destinati a rimanere senza risposta: dove risiede la radice di tutto questo male? Ascolto la pagina del Vangelo in cui si racconta delle tentazioni subite da Gesù nel deserto e mi soffermo a riflettere su quelle due parole riferite dal narratore a Gesù: «ebbe fame». Satana decide di tentare con le sue lusinghe Cristo quando, dopo quaranta giorni di digiuno, quest’ultimo «ebbe fame». E nelle tre tentazioni raccontate dall’evangelista Luca, sempre di fame si tratta, sia essa materiale («dì a questa pietra che diventi pane»), di potere («Ti darò tutto questo potere e la loro gloria…») o di onnipotenza («Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù di qui…»). Al di là di ogni possibile interpretazione teologica o di ermeneutica biblica, emergi qui tutta l’umanità del Figlio di Dio che, venendo in mezzo agli uomini, ne conosce fragilità e limiti (ad eccezione del peccato).
«Ebbe fame». Questo racconto sembra dirci che l’uomo quanto più ha fame, tanto più è esposto al male, e viceversa. Dal naturale bisogno di cibo, Satana si scatena in un crescendo di suggestioni diaboliche che portano l’uomo a desiderare oltre misura, fino all’indesiderabile. Lo aveva capito bene Dante, che aveva cristallizzando nella lupa famelica del primo canto dell’inferno l’immagine della cupidigia che non è mai soddisfatta di quello che ha e sempre desidera avere, in una infinita e frustrante logica di possesso:
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fè già viver grame (Inf. I, vv. 49-51)
La lupa dantesca è appesantita dal suo stesso bagaglio di desideri oltre misura («di tutte brame / sembiava carca»), ma, nello stesso tempo, appare in tutta la sua «magrezza» perché nulla la appaga. Non a caso, qualche verso più avanti, Dante definisce la lupa «bestia senza pace», perché sempre in cerca di qualcosa che non potrà di certo appagarla.
Questo crescente desiderio di possesso può condurre l’uomo dal “basso” dei suoi naturali bisogni («ebbe fame») alle altezze vertiginose («lo pose sul punto più alto» scrive Luca) dell’orgogliosa tracotanza che lo porta a presumere della propria potenza. Ma è lo stesso scenario di guerra a suggerirci che l’uomo ha anche fame di bellezza, di ciò che sazia non solo la pancia ma anche l’anima. Mi riferisco al Cristo crocifisso della cattedrale armena di Leopoli, conservato dagli ucraini in un bunker sotterraneo per proteggerlo dai bombardamenti, e diventato ben presto simbolo del martirio di quella nazione.
Che quel crocifisso torni presto a splendere nella sua casa; che passi presto dal buio del bunker alla luce delle strade piene di vita; che presto ogni uomo e ogni donna possa ritornare a mettere i suoi occhi in quelli del crocifisso, per poter affidare a quello sguardo d’amore quanti sono morti a causa della guerra. Che quella croce torni ad essere profezia di un mondo nuovo, come auspicato da un altro martire della guerra, il teologo protestante D. Bonhoeffer: «Nuovi valori vogliono emergere: l’amore al posto della sfiducia e dell’ostilità; la gioia, invece dell’amarezza e del dolore; la calma, quando l’impazienza ci vuole sopraffare; la gentilezza, quando sembrano prevalere le parole crudeli e dure; la benevolenza, quando la comprensione viene presa per debolezza; la fede, che in questo caso significa fiducia, dove lunghe separazioni e cambiamenti di situazioni vogliono far vacillare anche ciò che è più saldo; la mitezza, dove solo la crudeltà e l’egoismo sembrano poter ottenere risultati; la purezza, quando la ricerca del piacere viene messa al primo posto e i legami si allentano. Sono illusioni? È tutto impossibile?» (29 maggio 1944)