Conversazione con Bernardo Bertolucci
Uno dei più grandi registi italiani ha una mente che galoppa in un corpo che non risponde più tanto bene, e questo ti colpisce fin dalla sua entrata in sala.
È loquace, le idee corrono più veloci delle parole, snocciola un aneddoto dopo l’altro, in un racconto che parla di personaggi del grande cinema, e di meraviglia.
Bernardo Bertolucci, classe 1941, è uno dei nostri cineasti più importanti e apprezzati, sia in Italia, sia all’estero. La Festa del Cinema di Roma quest’anno ha avuto l’onore di averlo come ospite durante un incontro aperto a pubblico e accreditati, durante il quale il regista ha mostrato spezzoni di sei delle sue pellicole (Il conformista, Ultimo tango a Parigi, L’ultimo imperatore, Novecento, Il tè nel deserto e Io e te, nel caso vogliate recuperarle) e ha parlato, parlato, parlato. Di come si fa il cinema, come se davanti a lui ci fosse un solo interlocutore esperto, e non un auditorium gremito di gente. Coraggioso e gratificante: ha spiegato ma non ha inutilmente allungato, sapendo forse che chi era in sala non si trovava proprio lì per caso.
“Usare la macchina da presa è un po’ come guardare dal buco della serratura. Quindi, chi ama usare la macchina da presa è un voyeur, e non è una condanna né un giudizio. Io non sono un voyeur nella vita, ma al cinema divento davvero senza freni.”
Bertolucci parla come parlano i cinefili, il cinema lo respira, ne ama i movimenti, le forme e, perché no, i cambiamenti. Si dice aperto alla tecnologia e al digitale, anche se lo trova ancora troppo ingessato, troppo definito: “Si vede troppo bene! Non ci sono i flou o i fuori fuoco della pellicola, che ricordano la pittura impressionista.” Magari più in là si riusciranno a rendere questi effetti anche in digitale, e lui lo spera, e spera di poter avere il tempo di vederlo.
Dopo il successo di Ultimo tango a Parigi – “Potevo fare tutto, e succede di rado” – ha diretto Novecento, film enorme e complesso, in cui ha lavorato con attori come De Niro e Depardieu, tra gli altri. È un omaggio alla terra di suo padre, contadino e poeta, che gli ha insegnato tutto, dice.
Cresciuto nell’epoca della Nouvelle Vague francese e del Neorealismo italiano, Bertolucci chiama le sue influenze con nomi ben precisi: Godard e Rossellini. Registi non proprio facili, da “metabolizzare”, che hanno ispirato il suo cinema.
“Tutti i registi che amo sono dei ladri di cinema. E tutti scopiazzano, l’importante è non farsi scoprire!” Ladri di cinema, dunque. Ma ladri generosi, che rubano arte per restituire la magia dello spettacolo al pubblico.