
Prima l’uomo…
Barletta. Ti capita spesso di attendere dietro le sbarre del passaggio a livello di via Milano. Ed imprechi per il tempo che perdi. Inutilmente. Ti guardi intorno, una lunga teoria di vetture, una marea di motociclette e biciclette, massaie con sportine di frutta e verdura, una donna incinta, un disabile in carrozzina, molti anziani. Tutti con braccia ciondoloni, con l’area seccata e sguardi rivolti alle mille incombenze da sbrigare, che attendono invano. Nessuno parla.
Arriva il treno, sferraglia paurosamente. Il ruggito ti assorda. Ce la mette tutta, ma non riesce a far volare le nere pietre della massicciata. Giri la testa, una folata di polvere ti avvolge, sei in una nuvola, e le narici vengono inondate anche da invisibili granelli di pm2,5. Ringrazi per la gradita manna che ti ossigena.
La sbarra continua a sonnecchiare. Qualcuno comincia a spazientirsi. Vario e sempre aggiornato il repertorio delle imprecazioni e bestemmie. Il fischio di un’altra locomotiva, saltellante, lacera l’aria. Le tue orecchie sordastre vengono terremotate, ed ancora una deliziosa carezza di cipria pestifera irrora i tuoi ghiotti polmoni.
Qualche scricchiolio metallico. Svogliatamente, le sbarre accennano a svegliarsi dal torpore e, finalmente, puntano, inoffensive, verso il cielo. Un cafarnao di gente e veicoli precipitosamente parte all’attacco per raggiungere l’altra sponda della città. Prende il via un convulso zig zag per riuscire nell’epica impresa. Nel trambusto, inevitabili, le collisioni. Baruffe.
Ti è andata bene oggi. Solo due convogli, ed una manciata di minuti sciupati. Sprecati. Ma delle volte hai dovuto aspettare oltre un’ora. E più treni hanno sfrecciato, carichi di stanchi pendolari, di inamidati uomini d’affari e vagonate di dolori, speranze, amarezze e delusioni.
In altre occasioni, ti piegavi in due, le ossa artrosiche gemevano, allungavi il capo, da una parte, poi dall’altra, e se non vedevi nessun convoglio in arrivo, ti arrischiavi. E… non eri il solo. Il tuo passo correva veloce nell’attraversamento, se all’orizzonte scrutavi lo sguardo arcigno di una locomotiva sbuffante.
Oggi, non è stato possibile l’imprudente cimento, vietato giustamente dalla legge. Dalla sbarra zebrata di bianco e rosso pende una rete di lamelle grigie e rosse che rasenta il suolo. Avresti potuto superarla solo se fossi stato un verme, ed in qualche modo lo sei, se vieni trattato come un millepiedi, uno scarafaggio da schiacciare, da chi impunemente detiene il dominio.
È stato applicato, infatti, un diaframma integrale, dopo l’ultima tragedia. Come da sempre avviene in un’Italietta a scartamento ridotto, quando la strage ha già rastrellato le sue vittime o i ladri hanno svuotato il forziere.
Sei, invece, “una scimmia”, come una cinquantina di anni fa disse l’etologo Desmond Morris, citato nel raffinato brano musicale “Occidentali’s Karma” da Francesco Gabbani all’ultimo Festival di San Remo. L’unica, delle cento novantatré specie viventi che calpestano la Terra, “nuda”, senza peli o vello, con il cervello più voluminoso tra tutti i primati ed il pene più grande. Fai parte di una specie che umilmente si definisce “homo sapiens sapiens”.
“Ma a che serve ed a chi è utile tanta autoreferente “sapienza”? si chiede angosciata la macchia bianca, alla tua sinistra. Ampia. Una chiazza polverulenta di calce idrata. Sotto quel biancore spettrale, il sangue di una donna è ancora fremente di paura e sdegno. Caldo. Rosso.
Stavi su un pianerottolo di un ufficio della ASL di via Sant’Antonio, qualche giorno addietro. Anche là una marea di gente ammalata, disabile, anziana, febbrilmente sbuffante in un’attesa. Inutile. Penalizzante. Angelo, un uomo con i capelli bianchi, ti chiede: “Perché Domenico porti la macchina fotografica?” “Ho scattato poco fa una fotografia ai binari della ferrovia di via Milano, nauseati, loro che sono di acciaio, di assistere inermi a tante morti. Innocenti. Disgustati contro l’insensibilità degli uomini.”
“Se l’è cercata, la morte! Quella signora. Perché non ha aspettato?” commenta, lui. Come i più. “E tu, Angelo, non sei mai passato sotto le sbarre” chiedi sommessamente. “Tantissime volte. Molti lo fanno. Non si può perdere tanto tempo inutilmente.”
Poi aggiunge: “La conoscevo quella signora, poteva avere una cinquantina d’anni. Spesso era irretita febbrilmente dalle slot machine ed dalle video lottery di tabaccherie, di locali di gioco d’azzardo. Il suo misero denaro andava in fumo nella vana speranza, l’ingenua, di vincere qualche soldino e cambiare la sua misera condizione finanziaria.”
La rabbia monta ulteriormente alla notizia della sindrome di ludopatia. “Ebbene, Angelo, due volte è stata uccisa quella povera cristiana dallo Stato. Innanzitutto, perché come biscazziere fa leva, con la complicità della criminalità organizzata, sulla fragilità di tantissima gente umile. Povera. Misera. Ammalata. Inerme. Poi, perché non riesce a collegare adeguatamente da tempi immemorabili le due popolose parti della città.
Una quindicina di anni fa un docente, che amava insegnare l’educazione civica, concluse la sua carriera, raccogliendo con i suoi cuccioli di scuola media oltre tremila firme di cittadini per dotare il sottovia che collega via Imbriani con via Canosa di un tapis roulant, un marciapiede mobile. Attesero una risposta gli alunni. Silenzio assoluto. Nulla, poi, è stato fatto, dall’homo sapiens sapiens.
Sosti, in devoto raccoglimento, ad un passo da quel biancore accecante. La macchia bianca, dalla quale già affiorano ciuffi di erba, di giorno in giorno, si dilegua. Dei petali del mazzo di fiori, deposto da una mano pietosa, solo un paio ne sono rimasti. Intristiti e scolorati. Gli altri volteggiano, chissà in quale cielo!?
Quella nera, tenebrosa come l’antracite, che impregna le coscienze dei tanti ciarlatani della politica dello Stato, della Regione, della Provincia e del Comune, dei numerosi burocrati delle istituzioni che nulla hanno fatto per collegare le due parti della città, non scolorirà mai. Se la porteranno nella tomba.
E non solo loro, anche i tanti, solo formalmente cittadini, in qualche modo complici, che non si impegnano minimamente perché le esigenze vitali di tutti vengano tenue in somma considerazione e soddisfatte.
Prima di schiodarti da quella misera tomba, con occhi lucidi chiedi perdono a quella povera cittadina, che anche per colpa della tua infingardaggine civile, sociale e politica, non continua a sorridere e ad aggiungere un verso, quello suo, alla poesia della vita.
Ti appoggi al manubrio della bicicletta e reciti per te stesso, mentre una diafana figura femminea, comparendo all’improvviso, si staglia sulla parete di calcarenite sgranocchiata dalle intemperie, la preghiera del poeta turco Nazim Hikmet:
“Prima di tutto l’uomo”
Non vivere su questa terra
come un estraneo
o come un turista della natura.
Vivi in questo mondo
come nella casa di tuo padre:
credi al grano, alla terra, al mare
ma prima di tutto credi all’uomo.
Ama le nuvole, le macchine, i libri
ma prima di tutto ama l’uomo.
Senti la tristezza del ramo che secca
dell’astro che si spegne
dell’animale ferito che rantola
ma prima di tutto
senti la tristezza e il dolore dell’uomo.
Ti diano gioia tutti i beni della terra
l’ombra e la luce ti diano gioia
le quattro stagioni ti diano gioia
ma soprattutto, a piene mani
ti dia gioia l’uomo!