«Non vi è esperienza più liberatoria, più esaltante che determinare la propria posizione, dichiararla coraggiosamente, ed agire con fermezza»

(Eleanor Roosvelt)

Ricordò un evento perso nella notte dei tempi. Molti anni prima di quella notte, aveva conosciuto una persona in circostanze banali e obbligatorie, quelle presentazioni necessarie dopo le quali è illegale ricordare il nome di chi ti ha stretto la mano; aveva poi incontrato quella stessa persona in diverse occasioni, sempre senza quasi accorgersi della sua presenza. Invisibile, non c’era mai stato verso di accorgersi della sua esistenza e, di conseguenza, di rendersi conto che tutto ciò accadeva.

Trascorse davvero moltissimo tempo, anni ed anni, prima di un pomeriggio, più vicino a quella notte, durante il quale stava tornando a casa presa da una lite che si era srotolata poche ore prima con qualcuno a cui teneva molto: concentrata su questo non era presente a sé stessa ed era, peraltro, stanca e provata dal pomeriggio trascorso a lavorare duramente con la testa infilata in milioni di fogli, quando passò praticamente sui piedi della persona invisibile, senza vederla. Lei, invece, fu molto ben inquadrata. L’invisibile, che poi si scoprì esserlo per scelta, pensò di salutarla dopo aver fatto un po’ di fatica a riconoscerla: poi cambiò idea, quindi lei si era già allontanata, ma poi la cambiò ancora e quindi girò l’angolo per fare in modo di riuscire a beccarla.

Così fu. La prese di soppiatto alle spalle, le sussurrò un saluto che pareva essere stato studiato ad hoc negli anni precedenti e lei tornò improvvisamente sulla terra, impiegando attimi lunghissimi prima di capire chi aveva davanti.

E chi era, in realtà? In quel momento pensò si trattasse esattamente della persona la cui esistenza non doveva mai essere stata realmente provata e si accorse che solo allora, dopo tutti quegli anni, stava avendo contezza che l’invisibile avesse un corpo. L’aveva sempre percepita come una persona magra, magrissima, uno scheletro e invece in quel momento, avendo dato retta ad un inspiegabile istinto che, per il saluto, aveva aperto un abbraccio accogliente ed un sonoro bacio tra vecchi amici (come lo fossero stati), aveva avuto reale contezza che un corpo c’era, aveva uno specifico spessore e non era per niente inconsistente.

Incredibile.

La verità era che l’invisibile sapeva apparire e scomparire anche stando con tante persone in un piccolo luogo a suo piacimento, poteva essere interessante o procurare noia come meglio credeva o serviva: era una persona in qualche modo morta dentro, che ancora non sapeva quali immensi fiumi di vita scorressero in quelle vene, ma possedeva una bontà d’animo rara ed era per quello che si modificava… spesso serviva a far star bene chi aveva intorno, niente di più.

A seguito di quell’incontro, per circostanze non meglio note, i due amici divennero Amici ed in quella notte dei tempi l’invisibile le chiese come si sarebbe comportata in caso di sua volontaria dipartita. La risposta fu immediata: sarebbe scomparsa, non avrebbe più lasciato alcuna traccia, avrebbe fatto piazza pulita di sé in ogni dove, nella sofferenza viscerale, ma nel rispetto di una tale scelta. Non chiudeva mai a chiave le porte per quella ragione: conoscendosi sapeva che scrivere la parola “fine”, scegliendo di farlo, avrebbe significato scriverlo in modo assolutamente definitivo.

Ricordava lo sguardo spaventando dell’invisibile che, giustamente, l’aveva presa sul serio: lei aveva un milione di difetti, ma una cosa era certa come lo era la morte, non mentiva mai. Sarà stato, forse, per questo che in quell’Amicizia, rivelatasi come ogni cosa genuina ricca di alti e bassi, c’erano stati allontanamenti, discussioni, incomprensioni, silenzi lunghissimi. Ma mai, mai, strappi. Una specie di accordo tacito nel rispetto del quale ciascuno era libero di andare, ma la porta non veniva mai chiusa a chiave. Lo scopo? Solo uno: che nessuno perdesse mai definitivamente le notizie sull’altro: non avevano bisogno di molto, solo sapere che fosse più o meno tutto a posto, che erano vivi. Bastava e avanzava.

Dunque tornando al presente, lei era inciampata in una sorprendente delusione, una coltellata nel bel mezzo della schiena, di punto in bianco, da parte di qualcuno che sapeva già non essere né equilibrato, né affidabile: ma qualcuno che era riuscito a superare sé stesso e, magistralmente, a coglierla di sorpresa con una cattiveria che medaglia d’oro Tokyo 2020, levati!

Dapprima era diventata di ghiaccio, poi si era seduta e ripiegata su sé stessa, poi aveva osservato e subito dopo, senza davvero alcun colpo ferire, aveva idealmente fatto quella cosa che, come dicevo, non faceva mai. Aveva scritto: “Fine”.

Svariati erano stati i tentativi ipocriti di recuperarla, svariati e reiterati: senza mai affrontarla di petto, si cercava in qualche modo di manipolarla, circuirla, come se le parole gentili sparate a caso potessero avere una qualche funzione riparatrice.

Certi tentativi forse funzionavano con il mondo. Con lei, dopo una cosa così, erano vani, del tutto vani.

Ed era stato per questo che aveva ripensato alla notte dei tempi: risentiva le sue parole di un tempo, le legava alle vicende attuali che nulla avevano a che fare con quelle altre circostanze e misurava il peso terribile delle sue verità.

Era un’altra storia, un’altra vita, ma non un’altra lei. Aveva scritto “Fine”, a questo giro. E aveva focalizzato la verità: non avrebbe mai imparato a farsi scivolare le cose addosso. In onore della migliore Anna Magnani di tutti i tempi, la ricordò e su un post-it in bella vista sotto lo specchio del bagno, scrisse: meglio ruvida, che viscida.  

Fine. Lo aveva dedicato in italiano. Lo leggeva, per sé, in inglese.


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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.