Ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano occupati (E. Brecht)
Vorrei degli adulti un po’ meno bambini e un po’ più presenti; e vorrei dei giovani che li potessero contestare
Ci sono dei momenti in cui la presenza conta. E altri in cui si avverte l’assenza.
Potrebbe essere questa la morale della favola, quella che provo a spiegare ogni giorno ai miei alunni, in classe.
L’assenza di cui stiamo parlando non è quella per cui è chiesta la giustifica del genitore, si spera con firma autentica. L’assenza che ho in mente è quella della nostra generazione di educatori diseducati.
Generalizzo, semplifico, banalizzo, eccetera eccetera. Eppure mi chiedo: che cosa stiamo trasmettendo ai nostri giovani? Quali valori per cui valga la pena vivere? Quali gerarchie?
Ora, sono un ottimista fin dentro le midolla, credo nel progresso – non ho scritto: “nelle magnifiche sorti e progressive”… –, credo che l’uomo possa sempre sorprendersi e sorprendere, e mi piacerebbe vivere abbastanza per vedere almeno i prodromi di un’alba nuova. E nondimeno torno a chiedere: che cosa stiamo lasciando in eredità ai nostri giovani?
Passata la soglia del mezzo secolo di vita, appartengo alla generazione di chi è cresciuto nell’Italia del benessere e del risparmio, delle storie sulla guerra raccontata da nonni e genitori, delle lezioni imparate a pane e sacrifici, della fede nel duro lavoro, nella scuola, nel sindacato, nel partito, così come nell’oratorio e nella parrocchia, nella famiglia, manco a dirlo.
Di tutto questo che cosa lasciamo ai nostri giovani? L’antipolitica, l’individualismo, il tutto e subito, il successo facile, la fede nella ricchezza non sudata. A che serve la laurea se puoi fare molti più soldi e velocemente? I partiti? No, grazie, meglio i movimenti, ché quelli si muovono sempre e non si identificano mai, o meglio si identificano con tutto e niente. I sindacati? Qualcuno considera antiquato persino il Parlamento, figurarsi i sindacati! La parrocchia? E chi ci va più. La famiglia? Quale famiglia, per esattezza? I matrimoni religiosi sono per sfigati, quelli civili già sono più accettabili, ma il “vero” amore è quello “finché dura”, come dire, eternamente provvisorio…
La guerra? Incominciamo a farla ad immigrati e musulmani… E la scuola? Ma che scherziamo? Non vedi che Conte guadagna meno di Casalino?
Ora, di chi è la responsabilità di una simile situazione? Non certo dei giovani. Loro, in tutto questo, sono le vittime, non i carnefici. I carnefici siamo noi. I giovani avrebbero diritto a ricevere un modello di società, dei valori su cui fondare una vita, un ideale per cui spendersi. Ovvio: avrebbero diritto a tutto ciò non fosse altro che per ribellarsi e partire poi alla scoperta del proprio mondo. Ma come partire, se nessuno ti ha mai dato una bussola? Naturale che poi ti spari un po’ di trap, ti schiacci in una discoteca …”ebbasta”! Anche se questo, evidentemente, non basta.
Scrivo perché sono un bigotto? Forse. Perché sono un nostalgico? E perché no. Ma scrivo anche perché sono preoccupato. Perché amo i giovani e credo che stiamo rendendo loro la vita difficile, difficili il presente e il futuro. E non se lo meritano.
E non mi interessa se siano atei o cattolici piuttosto che buddhisti o animisti. Mi interessa che abbiano una fede e che si interroghino sul Senso.
Non vorrei che fossero di destra piuttosto che di sinistra o di centro, un po’ più in qua o un po’ più in là. Vorrei che credessero nell’importanza di battersi per un mondo migliore.
Non voglio neppure imporre un modello di famiglia, ma sarei felice se ne sentissero la nostalgia e scegliessero di impegnarsi per dare stabilità a chi si ama.
Non mi piace il pensiero unico, il consenso di massa, ma una massa di pensieri e giovani pensanti.
Chiedo troppo? Sogno troppo?
Io non credo. Io penso di sognare il giusto: ciò che sarebbe giusto che i nostri giovani avessero e che la nostra società, la generazione dei “grandi”, non dà loro.
Ecco, diciamo che vorrei degli adulti un po’ meno bambini e un po’ più presenti; e vorrei dei giovani che li potessero contestare. Proprio come abbiamo potuto fare noialtri, il millennio scorso.
Perché a volte la presenza conta. E l’assenza si sente.