Una petizione al Sindaco di Bari: un ricovero per l’umanità derelitta
L’appello questa volta non è per il referendum. Ce l’ha fatta, la Costituzione! È stata dura. A salvarle la pelle ha provveduto il popolo. Massicciamente. Ha passato un brutto quarto d’ora, il peggiore momento della sua esistenza, la legge fondamentale dello Stato italiano, partorita da cuori e menti lungimiranti, libere e generose.
Contro di lei militavano i poteri forti, italiani e stranieri, i deferenti media, l’elefantiaca burocrazia, i professionisti sviolinanti e… la politica pedestre che intendeva calpestare completamente la sovranità popolare. Ha intuito, la gente semplice, che qualcosa di losco si nascondeva dietro un testo raffazzonato, gettato là, come in pasto a dei cani, da politicanti dell’ultima ora, dagli squarci ammiccanti, dalla parlantina facile e dai biechi propositi.
Per i sondaggi l’esito era in bilico. Ne presagisti l’infondatezza la settimana antecedente al referendum, Quando ti gettasti anima e corpo, per informare sull’importanza della partecipazione e sulla necessità di votare “NO”. Leggevi negli occhi, nei gesti, negli interventi, semplici ma assertivi, che il popolo, gabbato, più volte, rassegnato, quella volta non dormicchiava. Sui marciapiedi, davanti alle scuole superiori, assordato dal clamore delle voci del mercato, lungo i binari stridenti delle stazioni, percorrendo corridoi di treni traboccanti di pendolari e studenti, in prossimità di supermercati dai carrelli colmi di tanta merce inutile e dannosa.
Era bello vivere tra la gente. Guardarsi nell’anima, approfondire con sincerità i pericoli che la democrazia italiana correva. Intessere nuove relazioni sociali. Aprire il proprio cuore ed accogliere titubanze e sofferenze. Riscoprire e riannodare legami di umanità, allentati per futilità, per l’ingordigia di roba. Per la paura del diverso.
Comprendesti che la partecipazione alla vita pubblica non si deve esaurire al momento del voto, che non bisogna delegare a nessuno la sacra sovranità, che la Costituzione va fatta applicare. Integralmente. Perché un disegno perverso incombe: tramortire la stragrande maggioranza del popolo e saccheggiare il territorio nazionale. I segnali premonitori sono molto allarmanti, e molti, i più deboli, gli scarti dell’umanità, resi torsoli di cavolfiori, bucce di arance, mele marce, calpestate, già si leccano le ferite e le piaghe per la mancanza di salute, servizi, lavoro, vita dignitosa, aria respirabile suolo vivo, acqua potabile o balneabile.
Quanti visi, esperienze, dialoghi. Speranze. Disillusioni. Drammi di piccoli e grandi, di donne e uomini, che scaturivano dall’anonimato e si stagliavano davanti alla tua coscienza. Strattonandola. Inquietandola.
In quell’occasione, ti imbattesti anche in famiglie indigenti. In Michele che bivacca in una fatiscente stamberga, mentre la moglie ed i figli nell’angusta dimora della nonna materna, che mette a disposizione gli spiccioli della pensioncina. In Giuseppe, marito di Antonella, che, precipitato dall’ulivo che potava, trascina i piedi, a quarant’anni.
Conoscesti giovani studenti con lo smartphone incollato all’orecchio, che distrattamente prendevano il volantino, altri, invece si fermavano, si informavano, esponevano quesiti, chiedevano altri fogli da distribuire ai propri amici.
Socializzasti con Flavio, ingegnere informatico, che ti avrebbe amabilmente accolto a casa sua, mentre appassionatamente giocava per tutta la casa con Vivian ed Alessandro, i suoi bei marmocchi.
Facesti amicizia con Enzo e Vito, due senzatetto, che da anni tentano di dormire all’addiaccio nei pressi della stazione di Bari, nella rientranza della vetrina di un bar. Ti raccontarono la loro vita disgraziata, fatta di sofferenze e patimenti. Non incontrano grosse difficoltà per mettere qualcosa in bocca, perché la Caritas fa miracoli, ma per dormire è un calvario. Quotidiano. Di giorno e di notte.
La tua mente corse a quella notte di plenilunio in cui, giovanissimo, sperimentasti il freddo raggelante a Calais, nella campagna spazzata dal vento dell’Atlantico. Arrivò subito un pastore tedesco, digrignando i denti. Non battesti ciglio, abbassò la coda e mogio mogio riprese la via della fattoria. Ogni tanto, stridenti civette, nitriti ed ombre inquietanti ti facevano compagnia, ma né il sacco a pelo né i vari indumenti placavano i frenetici brividi o bloccavano i denti irrequieti. Trepidante, scrutavi l’orologio, ma le lancette avanzavano impercettibilmente. Trovasti consolazione nella conta delle stelle. Una miriade. Di Tutti. Avute in eredità alla nascita, senza muovere un dito, da consegnare alle generazioni future assieme ai mari sconfinati, alle montagne innevate, alle foreste, agli orsi bianchi, ai deserti infuocati. Quando finalmente arrivasti a contare il più remoto puntino tremolante, un crescente chiarore squarciò le tenebre, ed il sole, ancora insonnolito, ti augurò il buon giorno.
Fortissima, era la puzza di urina dei due amici clochard. Dove vuoi che evacuino? In piena notte. Più volte. Col freddo. Abbandonati da te in quelle miserrime condizioni. Guadati dall’alto in basso con disprezzo. Pian piano ti assuefacesti all’odore nauseabondo, mentre prendevi coscienza che dal tuo essere si sprigionava un fetore molto più forte, quello della tua quotidiana indifferenza di uomo, imborghesito sino alle midolla. Dei tuoi occhi che non riescono a vedere l’essenziale, che solo il muscolo palpitante sa discernere ed apprezzare. Della smania che ti porta ad accumulare, calpestando persone, erbe e mari. Del denaro, delle case e dei terreni che, poi, come le stelle dovrai abbandonare. Mentre il firmamento continuerà a baluginare. Con occhi pietosi.
Nei giorni di nevicate, il tuo pensiero più volte aleggiava, trepidante, sui tuoi amici. Il ruvido Enzo, che ti afferrò la mano e le fece percorrere la profonda cicatrice della testa, mentre una stampella giaceva infreddolita lungo il suo corpo. Vito, mite, affettuoso, pieno di dignità. Dovesti insistere perché le sue mani accogliessero qualche monetina.
Dietro la vetrina, all’interno del locale, una vasca raccoglieva pietre. Ti venne in mente il film “La strada” di Fellini, quando Gelsomina, maltrattata da Zampanò, seduta al marciapiede, in un momento di grande disperazione, raccattando un sasso disse convintamente a se stessa: “Se esiste, un significato deve pur averlo.” Ti chiedesti: “Oltre alle pietre, non dovrebbero averlo anche tutti gli esseri viventi, animali e vegetali?”
“Raramente”, ti confidarono, Enzo e Vito, “la gente si ferma a dialogare, e quando capita anche il freddo si dilegua”. Promettesti: “Scriverò un articolo, rivolgerò una petizione al Sindaco di Bari, perché la politica, convolante con il volontariato, trovi un ricovero, aperto giorno e notte, per voi, per l’umanità derelitta”. Sorrisero e ringraziarono. Prima di svoltare l’angolo, ti girasti per salutarli con la mano, i loro sguardi miravano il firmamento.