5 dicembre, Giornata Mondiale del Volontariato
Il dolore e le responsabilità dei soccorsi durante i terremoti, la perdita dei compagni, la ricerca dei dispersi, il ruolo di istruttore, l’esperienza come medico in Antartide, il dilemma etico della rianimazione in certi frangenti. Odysseo intervista Andrea Molesi, anestesista rianimatore e volontario del Soccorso Alpino e Speleologico
Li abbiamo visti a Rigopiano, ad Amatrice e nell’emergenza maltempo che ha colpito il Nord Italia, ma spesso non li vediamo e probabilmente non li conosceremo mai: sono medici e infermieri che come volontari, a rischio della propria vita, prestano aiuto durante le emergenze con tutti gli altri soccorritori del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico (CNSAS). Riescono a raggiungere i feriti in luoghi dove medici e mezzi del 118 non possono arrivare, con l’obiettivo di stabilizzarli e trasportarli al presidio medico più vicino. Ad addestrare tutti i soccorritori, sono gli istruttori volontari della SNaMed, la Scuola Nazionale Medici del CNSAS. Odysseo pubblica in esclusiva la versione integrale* della preziosa testimonianza del dottor Andrea Molesi, 44 anni, medico anestesista rianimatore in un ospedale di Ancona, volontario del CNSAS e istruttore della SNaMed.
*Parte dei contenuti di questa conversazione sono apparsi su Repubblica.it-Mondo Solidale
Andrea, cosa significa essere istruttore nel CNSAS e perché è importante la formazione dei volontari?
L’esperienza di soccorritore così come quella di istruttore è un’esperienza di continua crescita. Andare in giro, poter conoscere i volontari, ascoltare le loro aspirazioni, le loro motivazioni, le loro esperienze, riuscire a vivere con loro anche soltanto per due giorni, ti fa comunque crescere, non solo come soccorritore ed essere umano, ma anche come istruttore, perché cerchi di tarare i tuoi insegnamenti in base alle specificità di ognuno e alle necessità del territorio. Nel Soccorso vige una regola, “Il ferito è uno solo, tutti gli altri sono soccorritori”, le vittime non devono aumentare, i soccorritori devono tornare a casa sani e salvi, ed è il motivo per cui noi ci impegniamo così tanto nei corsi di formazione, perché i soccorritori devono avere gli strumenti non solo per stabilizzare il ferito ma per aiutare sé stessi e i compagni. Se in una squadra uno si fa male, gli altri sono in grado di aiutarlo. Succede spesso, durante le ricerche di superficie, che talvolta queste durino talmente tanti giorni che le speranze di trovare il disperso vivo diventino prossime allo zero, eppure anche in quei casi partecipiamo noi sanitari, per essere a fianco dei nostri volontari che si stanno mettendo il gioco.
Anche in Puglia la delegazione CNSAS interviene nella ricerca dei dispersi. È successo, per esempio, per i piccoli Ciccio e Tore, Sara Scazzi, e qualche settimana fa quando i volontari hanno trovato privo di vita quel signore anziano che si era allontanato alla ricerca di funghi. La ricerca di superficie rientra dunque nei compiti del Corpo?
Sì, come struttura della protezione civile, in tutte le regioni il Soccorso Alpino e Speleologico collabora con le altre istituzioni nelle ricerche dei dispersi. Per esempio nelle Marche, la regione in cui opero io, qualche anno fa un runner scomparve nel nulla sui Monti Sibillini, dopo qualche giorno senza esito le autorità decisero di interrompere le ricerche, ma la famiglia non si arrese, così dopo un anno la nostra delegazione riprese le ricerche, riuscendo a trovare una scarpa e pochi brandelli di indumenti. Dopo le conferme scientifiche sull’identità e la ricostruzione della possibile dinamica dell’incidente continuammo le battute di ricerca e l’anno successivo potemmo restituire i resti ai suoi cari. Ecco, mi piace pensare che ciò che facciamo abbia un senso anche quando non riusciamo a trovare vivi gli infortunati.
Quali sono le principali difficoltà che vi trovate ad affrontare voi volontari, medici e non, durante le operazioni di soccorso in ambienti impervi o resi ostili dalle calamità?
Beh, siamo tutti addestrati ad affrontare le difficoltà tecniche, le discese in verricello dagli elicotteri in posti proibitivi o la gestione complicata di interventi lunghi per il numero di feriti e gravità. Tali difficoltà scompaiono nel momento stesso in cui gli infortunati arrivano in ospedale e ogni singolo soccorritore è tornato a casa. Per esperienza personale, posso dirti che le vere difficoltà, quelle che ci segnano, sono le implicazioni emotive di determinati interventi, per esempio in occasioni di catastrofi e calamità naturali. L’intervento più complicato che ricordo in tempi recenti è stato sicuramente quello ad Amatrice. Ci trovammo di fronte a una città che ci dicevano terremotata, ma davanti ai nostri occhi sembrava bombardata. Non c’era più nulla in piedi, i danni del terremoto erano infiniti, ed essere consapevole che sotto tutte quelle macerie c’erano ancora tantissime persone da tirare fuori, cercare di capire da dove iniziare per aumentare le probabilità di trovarle e farle riemergere vive, e contemporaneamente sapere che con te c’erano oltre 2000 volontari di cui ti dovevi prendere cura, tutto questo è stato indubbiamente difficile. Penso che tutti in quell’occasione, quando siamo tornati a casa, abbiamo vissuto un disturbo post-traumatico da stress, perché continui ad avere quelle scene davanti agli occhi, a sognartele di notte e a non dormire, perché con la mente ritorni sempre lì, a quelle macerie, alla polvere che hai inalato e soprattutto ai morti che hai tirato fuori.
Immagino che non sia facile nemmeno subire la perdita dei compagni, negli anni il CNSAS ha perso diversi volontari …
No, non è facile per niente. Per quanto bello, utile e stimolante, ciò che facciamo ci porta per lungo tempo lontani dalle nostre famiglie, in posti dove molti non andrebbero mai e soprattutto mette in gioco le nostre vite. Ne perdiamo tanti di volontari, anche espertissimi. Negli anni ho visto morire diversi compagni lungo tutto l’arco Alpino. Ed è difficile già quando li perdi per malattie o incidenti non legati a questa attività, figurarsi quando devi andare a prendere quelli caduti durante un’operazione di soccorso, come è stato per i colleghi accorsi dopo lo schianto dell’elicottero a Campo Felice, in Abruzzo nel 2017, dove c’era anche Mario Matrella [tecnico di volo del 118 e volontario del CNSAS Puglia, precipitato insieme ad altri 4 soccorritori mentre trasportavano in ospedale uno sciatore ferito, N.d.R.]. Siamo consapevoli di ciò che rischiamo, lo mettiamo in conto e in qualche modo lo accettiamo, ma non ci abituiamo mai, i lutti e le perdite non le superiamo mai veramente.
Voi medici avete come faro il giuramento di Ippocrate. Ti è mai capitato durante un soccorso di intuire subito che un vostro intervento di stabilizzazione avrebbe in realtà condannato il paziente ad una non-vita o ad una sopravvivenza breve o difficile? Come vi comportate in questi casi?
Domanda estremamente difficile, risposta altrettanto complicata. Sì, mi è capitato e mi capita tuttora. Noi medici abbiamo delle linee guida da seguire. Sappiamo che ci sono delle manovre incredibilmente invasive e che hanno un prezzo altissimo per il paziente, sappiamo anche che ci sono dei momenti in cui sarebbe meglio non iniziare affatto certe manovre. Conosciamo queste indicazioni, ma è estremamente difficile metterle in pratica, soprattutto nell’immediatezza del soccorso, perché siamo esseri umani con una personalità ed una sensibilità e siamo lì per fare del nostro meglio per portare vivo il ferito in ospedale. Come medici del CNSAS cerchiamo di riportare le nostre esperienze nella letteratura scientifica, salvo poi imparare da eventuali errori per non ripeterli. Peraltro, le linee guida di cui parlo sono discusse e tarate per ambienti ospedalieri, quindi non impervi quali sono quelli in cui ci troviamo ad operare noi.
Hai partecipato alla spedizione Enea in Antartide, e sei rimasto lì per 4 mesi. Un’esperienza professionale non comune, così come non molto comune è il volontariato nel Soccorso Alpino. Hai trovato punti di contatto tra queste due esperienze?
Il mio essere volontario nel Soccorso Alpino ha sempre viaggiato su due piani, uno è quello prettamente tecnico-sanitario con la quotidianità degli interventi, l’altro è quello culturale e di ricerca scientifica. Ho sempre continuato a studiare medicina, l’ho fatto anche nel CNSAS, conseguendo un diploma come medico di montagna. Il viaggio in Antartide è stato fonte di ricerche personali, di esperimenti per capire quanto l’ambiente condizioni l’operato dell’uomo. Sono partito cercando la miglior medicina che potevo portare laggiù, che non era quella dell’anestesista rianimatore o del soccorso in ambiente impervio, ma quello della medicina delle spedizioni, in ambienti confinati, subacquei o iperbarici. Ho dovuto affrontare problemi imprevedibili: gestire dal punto di vista medico una base con problemi di nutrizione, perdita dei ritmi sonno-veglia, ansia, nostalgia, tutti aspetti che non noti, quando ti allontani da casa per pochi giorni. Potrebbe sembrare assurdo, ma lì la gestione del trauma fisico è relativamente facile, siamo addestrati, invece la gestione della vita quotidiana in un ambiente confinato e proibitivo come l’Antartide ha delle caratteristiche che non sono scritte sui libri di testo, bisogna scoprirle e trovare le soluzioni sul momento. Che è un po’ ciò che avviene in determinate operazioni di soccorso del CNSAS, dove l’ambiente detta le regole.