Dell’alba colpisce proprio questo: la gradualità con cui la luce dirada il buio…
Dire a qualcuno che “indossa una maschera”, non significa certo fargli un complimento! Questa parola ha un’origine particolare: alcuni la ricollegano a “maska”, un termine antichissimo che dal nord Italia si è diffuso in Europa, con interessanti ripercussioni nelle lingue: dal francese “masque”, al tedesco “maske” e all’inglese “mask”. La parola è connessa a qualcosa di nero e, quindi, di oscuro e sinistro; le prime maschere, infatti, erano più che altro realizzate con tinture naturali, come la fuliggine, applicate direttamente sul viso.
Oggi la maschera più diffusa è probabilmente lo schermo del computer o dello smartphone: la realtà virtuale ha sdoganato la possibilità di mostrarsi per ciò che non si è. La piattaforma social è la piazza senza controllo sulla quale ognuno può parlare a ruota libera, costruirsi identità fittizie a suon di parole gonfiate, cambiare e scambiare le opinioni e le prese di posizione con un semplice e removibile like, conquistarsi con lo stesso la fiducia e la stima di qualcuno e, viceversa, valutarne l’effettiva amicizia, come se dissentire dai contenuti pubblicati sia segno di disistima.
Io non credo siano meccanismi “degli altri”; anzi, quando vedo e leggo insistenze particolari sui presunti “teatrini” delle vite altrui mi insospettisco un po’. Tanto accanimento sulla finzione “delle persone”, rivela un’attitudine alla falsità maggiore rispetto a quella dei fantomatici nemici. Non solo: in genere troppa agitazione a riguardo è il segno del bisogno di scagliarsi contro le maschere degli altri semplicemente perché le proprie sono cadute, e per mezzo di quegli “altri” che ci hanno smascherato e lasciati indifesi, in balìa della verità su noi stessi.
Nessuno è troppo puro, nessuno è troppo innocente, o perlomeno esente dalla finzione. Se lo è, non ha bisogno di ribadirlo con veemenza: le cose limpide non hanno bisogno di mettersi in vetrina. Mostrano quello che sono lasciando trasparire l’altro. E l’oltre.
Ogni giorno siamo chiamati a lasciar cadere qualche maschera, ad abbandonare qualche recita per riconnetterci con la realtà. La purezza non consiste nella mancanza assoluta di finzioni, ma nel riconoscerle e nello scegliere, nonostante tutto, l’autenticità, ossia l’essere se stessi, semplici e riconciliati con il proprio cuore e con la realtà, senza lottare contro chiunque non ci dia ragione. Questo non significa abbandonarsi a uno spontaneismo senza freni inibitori. A volte, a furia di essere se stessi, ci si denuda anche di sé, ci si perde. Ci vuole equilibrio, sempre. “La verità deve abbagliare gradualmente. O tutti sarebbero ciechi”, scrive Emily Dickinson.
Dell’alba colpisce proprio questo: la gradualità con cui la luce dirada il buio, avanza sull’oscurità, si impone sulla notte, toglie il velo delle cose e le riporta alla chiarezza. Eppure anche la luce più viva non toglie le ombre, semplicemente perché non ha il potere di illuminare contemporaneamente tutte le facce di ciò che investe.
Dovremmo per questa sua “incoerenza” smettere di credere in lei? No. Dovremmo imparare da lei lo stile dei piccoli passi e della capacità di sopportare i lati oscuri, per convertirci ai nostri ed essere più misericordiosi verso quelli degli altri. Che non equivale a lasciarsi sottomettere da chi vive completamente sdoppiato e pericolosamente mascherato, ed è ben oltre le piccole finzioni inconsce o piuttosto “ordinarie”. Ma significa agire e parlare con fermezza serena, senza elevarsi su piani di inesistente, assoluta infallibilità.
E come si fa? Chi lo sa! Se ci riusciamo o no ce lo rivelano i volti dei più vicini: se bevono la nostra luce nonostante le nostre ombre, se scoprono la loro luce e abbracciano le proprie ombre, diventando alba per gli altri, ci saremo riusciti.