Sul tema interviene il prof. Luigi Alici, professore ordinario di Filosofia Morale presso l’Università di Macerata.
Professore, ci suggerisce l’immagine dell’educazione come restituzione tra generazioni, dunque prima è necessario riconoscersi come debitori?
La riflessione sul tema della restituzione è molto attuale. La restituzione è un atto secondo, presuppone cioè che si sia ricevuto e che ci sia un riconoscimento nei confronti di quello che si è ricevuto. Non è un atto meccanico, perché non tutto quello che noi abbiamo ricevuto è buono. Abbiamo ricevuto una società degradata, un debito pubblico mostruoso, una illegalità e una corruzione indecenti, però abbiamo ricevuto anche un modello di diritti di cittadinanza, una carta costituzionale che li inquadra, l’idea di una scuola pubblica, l’idea di una sanità che dovrebbe offrire a tutti gli stessi servizi. L’educazione è continuare questo cammino, riconoscendoci legati a chi ci ha preceduto da un debito che è fondamentalmente un debito di gratitudine. È un debito relativo, perché a volte noi riconosciamo di essere per certi aspetti, soprattutto a livello economico, a credito, però contiene l’idea di un compito in avanti, perché la restituzione non può avvenire nei confronti delle generazioni che ci hanno preceduto. Quindi qui c’è il tutto il tema della promessa: educare non è un do ut des, è alimentare un modello di società aperta, per questo l’educazione è una parte integrante del bene comune di una società.
L’educare ci pone inevitabilmente di fronte a delle sfide con le quali dobbiamo confrontarci. Quali sono secondo lei i nodi che sono poi anche le opportunità del nostro tempo in tema di educazione?
L’educazione è un bene prezioso e anche molto fragile, che risente di una serie di incertezze e di disorientamenti che caratterizzano il nostro tempo. Le criticità, che oggi a me sembrano sfide essenziali da affrontare, riguardano prima di tutto il tema delle differenze, cioè l’idea che educare non significa scappare davanti ai problemi, negare le asperità della vita, nasconderci i conflitti, ma imparare ad attraversarli. Non si tratta solo delle differenze dell’uomo con la natura o con il mondo che l’uomo con il suo lavoro ha creato (l’economia, la tecnica, la scienza, …), ma anche del fatto che l’essere umano al suo interno è un essere differenziato. È un essere in cui la vita nella quotidianità più banale ed insieme la domanda di trascendenza convivono. Accettare questo è il primo passo, perché un’educazione che ci insegna a scappare via dalle differenze oppure a scegliere un dimensione della vita a scapito di un’altra, a non saper fare la sintesi, è un’educazione che è fallita in partenza. Con altrettanta attenzione vanno considerati poi il tema della relazione educativa e della dimensione del cammino ovvero della necessità di saper guardare lontano. Senza l’idea della semina, educare non significa niente!
Qual è il giusto equilibrio tra la necessaria asimmetria di una relazione educativa ed il bisogno di sentire l’educatore “vicino” a sé?
La relazione educativa costituisce un altro nodo dell’educare. Essa per certi versi è una relazione di grande prossimità e quindi è una relazione di autentica reciprocità. Per altri versi però è una relazione di tipo generativo. Educare significa continuare a generare in modo diverso da quello biologico. Questo significa imparare anche uno stile in cui la confidenza e la distanza stanno insieme. Se non impariamo questo stile, rischiamo di passare da un modello autoritario-paternalistico ad un modello paritario-contrattualistico, che non aiuta i ragazzi a crescere, anzi li asseconda nel loro infantilismo.
Quali tempi richiede il verbo educare?
La vera educazione ha bisogno dei tempi lunghi della semina e non dei tempi brevi del raccolto. Questa sfida riguarda il senso del cammino, che deve accompagnare l’educare. L’educatore è l’uomo della lungimiranza ma anche della pazienza; è l’uomo in cui c’è l’impazienza della profezia ma anche la pazienza della misericordia. Pazienza nel senso etimologico dell’imparare a patire, dell’imparare a soffrire, nell’accettare gli scacchi, i fallimenti.
Cosa deve caratterizzare lo stile educativo della Chiesa?
Papa Francesco è veramente un dono della Provvidenza, perché in un momento in cui nella comunità cristiana, nell’epoca della complessità e della globalizzazione, si faceva sempre più forte il rischio che bastasse irrigidirsi nella ripetizione della dottrina, Francesco ci ricorda il messaggio conciliare di assumere la capacità di leggere dentro la Storia il bene che lo Spirito sta suscitando. In fondo il profeta è colui che legge la storia in maniera selettiva, cioè individua il bene, lo separa dal male e ci ricorda continuamente che il bene ha la prima parola e quindi anche l’ultima. Da questo punto di vista, la postura educativa della Chiesa consiste nel cambiare atteggiamento nei confronti della Storia, nel non irrigidirsi aspettando che passi questa stagione di crisi, nell’accettare che forse la crisi durerà decenni, nell’accettare di abitare dentro la crisi. Il Papa usa spesso l’immagine della Chiesa ospedale da campo, del pastore che ha l’odore delle pecore, della Chiesa che è meglio che sia accidentata e un po’ sporca che inamidata e ferma. Anche le encicliche, i documenti, le esortazioni post sinodali sono inviti ad assumere un certo stile nei confronti della Storia. Quindi sono soprattutto indicazioni di metodo e non semplicemente riassunti della dottrina cristiana.