«La grandezza di un uomo risiede per noi nel fatto che egli porta il suo destino come Atlante portava sulle spalle la volta celeste»
(Milan Kundera)

Ci sono state tante mancanze che nella vita mi hanno insegnato le forme degli infiniti volti del vuoto. Alcune, addirittura, mi hanno fatto vedere la sua parte meravigliosa. Le altre no, hanno palesato il senso di caduta, tremore, timore.

La sera in cui stava morendo Papa Karol, per esempio: così lo chiamavo. Era il mio Papa da bambina e io lo avevo sempre pensato come a un nonno, quindi lo chiamavo per nome. Quella sera ero nella mia stanza e avevo la tv accesa… boh, mi sentii in un modo che non sapevo spiegare. Corsi da mamma e le chiesi se stava succedendo davvero: lei gli voleva bene e tante volte si era detta arrabbiata con la Chiesa che non gli permetteva di riposare. Non accettava che quel duro lavoro potesse essere una sua scelta (ancora mi chiedo se, a tratti, non avesse ragione). Mi disse di sì, annuendo nel modo più triste io ricordi. Forse solo allora avvertii una minima forma per quello che sentivo: abbandono. Sentivo esattamente l’abbandono e mi chiesi: Se ora se ne va lui, noi come facciamo? Soli, ci lascia soli. E lo vidi tutto quando morì davvero, poco dopo. Mi sentii sola. Per la prima volta davvero. Talmente vero che me lo ricordo come fosse ieri.

La cosa, sebbene in misura diversa ma non meno profonda, è accaduta in altre circostanze che potrebbero dirsi non effettivamente parte del quotidiano: persone “sconosciute”, eppure… Eppure.

Giorgio. Faletti, intendo. Quando ero piccola, lui era una monaca al Drive-In, quando ero un po’ cresciuta cantava a Sanremo, poi scrisse “Io Uccido” e si palesò. Non potei più farne a meno: ogni suo romanzo doveva essere mio. Tutti, dovevo leggerli tutti. Alcuni a tratti mi deludevano, ma io non mi stancavo di tenerlo con me perché anche le righe deludenti facevano di lui un uomo e mi facevano sentire meno cretina, essendo io umana come lui. Mi facevano sperare che anche io avrei potuto fare qualcosa di buono.

Poi Giorgio è morto. E di nuovo quel senso di mancanza incolmabile. Se n’era andato pure lui e per me era una cosa terribile.

Non sto qua a dire che certi uomini non se ne possono andare mai davvero avendo lasciato grosse eredità, è ovvio. Quello di cui parlo è un taglio diverso: non ci sono più, è un fatto. La loro eredità certamente altri potranno perpetrarla, ma mai nello stesso modo: meglio, forse, ma non ugualmente. Ognuno è insostituibile, alcuni lo sono di più.

In quei momenti mi tornava in mente Dario, mio cugino acquisito, che piangeva a lacrime pesanti ettolitri davanti alla morte di Lucio Battisti. Ero veramente troppo piccola allora, non sapevo nemmeno pronunciarlo il nome “Battisti”, figurarsi sapere chi fosse e capire perché Dario soffrisse. Mamma mia: Lucio Battisti. Certo che Dario era disperato! Lucio Dalla, Raimondo Vianello, Sandra Mondaini, Franco Battiato, Ennio Morricone, Wilbur Smith, Carla Fracci, Raffaella Carrà, Gino Strada… e quanti altri. Anzi, forse vi farò sorridere: Corrado e Mike Bongiorno.

Ma perché ci sto pensando?

Facile: la leucemia di Alessandro Baricco e la delicatezza del modo in cui ce lo ha rivelato.

Non lo nascondo: ho risentito la sensazione del ghiaccio dentro. Quasi ho dimenticato per un istante, imperdonabile, che non è affatto morto, che  i medici che si sono ficcati in testa di guarirlo hanno tutta laria di essere in grado di riuscirci abbastanza in fretta.

E continuando a citarlo: Forse, ecco, mi va ancora di dire che percepisco ogni momento la fortuna di vivere tutto questo con tanti amici veri intorno, dei figli in gamba, una compagna di vita irresistibile, e il miglior Toro dai tempi dello Scudetto. Sono cose, le prime tre, che ti cambiano la vita. La quarta certo non te la guasta.

E allora, mettendo la testa fuori dal gelo che la frase “Baricco ha la leucemia” mi ha fatto provare, io dico:

Alessandro, scusami se ti chiamo per nome, ma si è capito, Karol, Giorgio… io funziono un po’ così: che un pianoforte abbia 88 tasti e su questo nessuno possa fregarci, me lo hai insegnato tu. Però hai detto pure che su quei tasti infinita è la musica che possiamo fare, che c’è lo sgabello su cui si siede Dio. E allora, ringraziando perché siamo ancora in tempo, ti chiedo la cortesia di continuare a suonare, come è chiaro tu stia facendo.

Io, che so bene essere nessuno, rimango ad aspettare la prossima sinfonia con la tua firma e di una cosa sono certa: di nessuno come me ce ne sono proprio tanti. E tanti nessuno insieme fanno un coro che ti chiede: forza, resta qui!


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Sono una frase, un verso, più raramente una cifra, che letta al contrario mantiene inalterato il suo significato. Un palindromo. Un’acca, quella che fondamentalmente è muta, si fa i fatti suoi, ma ha questa strana caratteristica di cambiare il suono alle parole; il fatto che ci sia o meno, a volte fa la differenza e quindi bisogna imparare ad usarla. Mi presento: Myriam Acca Massarelli, laureata in scienze religiose, insegnante di religione cattolica, pugliese trapiantata da pochissimo nel più profondo nord, quello da cui anche Aosta è distante, ma verso sud. In cammino, alla ricerca, non sempre serenamente, più spesso ardentemente. Assetata, ogni tanto in sosta, osservatrice deformata, incapace di dare nulla per scontato, intollerante alle regole, da sempre esausta delle formule. Non possiedo verità, non dico bugie ed ho un’idea di fondo: nonostante tutto, sempre, può valerne la pena. Ed in quel percorso, in cui il viaggio vale un milione di volte più della meta ed in cui il traguardo non è mai un luogo, talvolta, ho imparato, conviene fidarsi ed affidarsi.