Esiste nell’adirarsi anche una dimensione etica a cui si può attingere solo se l’emozione abbia decantato tutte le proprie impurità istintuali e sia forza pura e passione limpida.
La vita ha bisogno, talvolta, di un colpo d’ala, perché nasconde un’infinità di anfratti che val la pena di sondare e svelare per illuminare con scintille di luce i lati oscuri del presente: passione inutile?
L’orientamento del comunicatore penetrante è raccontare le storie, spesso dense di sfaccettature ed emozioni: storie brutte e belle; storie assurde, ma anche molto normali e positive; storie serie, ma anche divertenti e di evasione. È dalle storie che si può risalire ai legami, alle cause, alle trasformazioni. Storie non soltanto di persone, ma anche di luoghi, di periodi, di ambienti, di situazioni, di futuro. Per raccontarle occorre genialità: capacità cioè di risalire da circostanze normali a messaggi oltre le circostanze. In questi passaggi si misurano creatività, arte e cultura capaci di rendere palese ciò che è particolare o nascosto; interessante ciò che è ovvio; illuminante ciò che appare scontato. In questa missione riusciranno solo uomini liberi e quindi grandi, perché non hanno il vezzo della censura elegante, ovvero il rifiuto di registrare umori e sensazioni contrari al proprio modo di vedere le cose…
Infatti il non essere in grado di leggere ciò che avviene nella realtà, perché in contrasto con un dogmatismo precostituito, esprime sudditanza più che creatività nei confronti dei propri totem. Spesso si tenta di affermare falsamente se stessi, bisognosi di dire a tutti di essere i primi della classe: è la “ritirata della verità”.
La “comunicazione” è per sua natura luogo e laboratorio di confronto e di dialogo, non palcoscenico dove esibirsi in un irresistibile egocentrismo autocelebrativo che riduce gli altri a semplici spettatori, se non merce a nostra disposizione. Questo significa toccare il fondo in un rapporto dove la comunicazione dovrebbe vivere e svilupparsi. Non dimentichiamoci che il comunicatore è un inviato a raccontare ciò che ha visto o percepito, dando voce anche a coloro che violentemente sono stati zittiti da chi ha compiuto una fuga dalle responsabilità, annullando o infangando coinvolgenti relazioni che ci fanno riscoprire e assaporare la bellezza e la tenerezza degli incontri. Raccontare agli altri quello che si è visto è atto di carità e annunzio profetico di un amore che è totalmente distaccato da ogni interesse personale.
Viviamo purtroppo in tempi che osannano il diritto di lasciarsi andare. Ma se adirarsi è facile, occorre farlo con chi si deve, al momento opportuno e nel modo conveniente: ciò non è facile, né da tutti, ma solo per gli intelligenti. Ci si adira con terze persone, ma non con l’interessato che, a sua insaputa, si trova ad essere anche oggetto di omelie, in barba alla Parola di Dio appena proclamata, rasentando così la strumentalizzazione della liturgia. Assistiamo in questo modo a manifestazioni di collera non filtrata dall’intelligenza e dall’educazione, né dal senso della misura. La propria “verità” viene lanciata in faccia, possibilmente in pubblico, con un gusto perverso – nel senso di distruttivo – dell’esibizione di quanto di più magmatico esista nell’animo e nella mente umana.
Un esercizio straordinario, utile sia per migliorare la personale capacità di stare nella propria pelle quando si è vulcanici, sia per diventare sempre più incisivi, richiede un solido esercizio nell’arte di pensare con efficacia, di dialogare, di scegliere le parole che meglio vestano con eleganza il proprio sentire. E allora potremmo dire che esiste nell’adirarsi anche una dimensione etica a cui si può attingere solo se l’emozione abbia decantato tutte le proprie impurità istintuali e sia forza pura e passione limpida, al servizio di una causa che meriti la nostra energia e il nostro cuore… più che la difesa di dogmatiche posizioni. Questo è possibile se acquista forza il detto di Pablo Neruda: “la parola è un’ala del silenzio”.