Perché la figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978 e uno degli ex vertici delle medesime, implicato a pieno titolo nel caso Moro, girano per l’Italia insieme, in amicizia?

Gli incontri sono fatti di gesti prima che di parole, di corpi che si muovono anticipando e tradendo ogni possibile retorica, di vicinanza, di prossimità cercata a partire dagli sguardi. E ogni corpo reca una storia, crepata, spesso ferita, cicatrizzata ma sempre segnata da eventi passati, eventi che niente e nessuno può riaprire. Perché il passato è passato. Ma Agnese Moro e Franco Bonisoli non la pensano proprio così e giovedì scorso lo hanno raccontato ai nostri giovani maturandi del liceo artistico “A. Modigliani” di Giussano, dove ho l’immensa fortuna di insegnare.

La prima domanda è: perché? Perché la figlia dello statista ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978 e uno degli ex vertici delle medesime, implicato a pieno titolo nel caso Moro, girano per l’Italia insieme, in amicizia? Perché esiste il perdono, diremmo noi. Almeno, avrei detto io stessa. Sempre colpita dalle confidenze dei miei studenti che, troppo spesso, a 16, 17, 18 anni già pensano che «ormai la vita va così», «non valgo niente», «a volte penso sia meglio farla finita», ho pensato di ospitare Franco e Agnese proprio perché raccontassero la possibilità di perdonare e di perdonarsi, ridando significato anche al passato più assurdo. Se non fosse che di perdono non si è parlato. O meglio, se ne è parlato un attimo, giusto il tempo di specificare da parte loro che non è una parola che amano usare. «Io non ho chiesto di essere perdonato, né Agnese mi ha detto che mi perdonava. Tra di noi è accaduto qualcosa di più profondo».

La parola “perdono”, da per-donare, ossia “donare completamente, senza condizioni”, ci raggiunge sempre da sistemi religiosi codificati. Ma giovedì 4 maggio al liceo Modigliani non sono state scalate vette mistiche; si è piuttosto scesi nelle profondità di insondabili sofferenze. E le parole sono state accuratamente scelte, perché «le parole sono importanti e le ideologie sono pericolose». Così la pensa Bonisoli, o meglio Franco, come vuole essere chiamato dai circa cento studenti presenti, ai quali spiega che aveva la loro età quando è entrato nella lotta armata e che a 28 anni aveva collezionato già 4 ergastoli per gli atti di terrorismo commessi a nome delle Brigate Rosse, incluso il diretto coinvolgimento nel caso Moro. Ha parlato lucidamente, rompendo spesso la voce nelle lacrime, mentre il più assoluto silenzio scorreva tra i presenti. Ha raccontato delle carceri di massima sicurezza. Ha raccontato che più il carcere era duro, più la violenza si radicava in lui. Ha raccontato di essere cambiato quando il direttore di una delle carceri girate gli chiese se «avesse bisogno di qualcosa». Ha confessato di aver pensato di farla finita, perché questo gesto di attenzione, di umanità ha creato una falla nel muro delle sue convinzioni, aprendogli gli occhi sul male commesso. E infine ha condiviso la sua rinascita perché, pur continuando la sua pena, è uscito da gabbie peggiori, quelle mentali.

Ma allora se di perdono non è il caso di parlare, cosa possiamo dire? Agnese Moro suggerisce un’altra strada, raccontando che, dopo qualche reticenza iniziale, nel 2010 ha accettato di incontrare Franco perché ha visto una persona “disarmata”: «è solo quando ci disarmiamo che impariamo ad ascoltare. Da qui nasce la fiducia, una fiducia che passa dal dirsi la verità in faccia e dall’iniziare un cammino diverso, in cui non ho riavuto mio padre, ma ho imparato a condividere il mio inferno con quello degli altri». Ecco la giustizia riparativa, quella oltre le condanne e le carceri, quella che veramente rieduca e riumanizza, quella che abbraccia vittime ed ex carnefici e restituisce la dignità sottratta da scelte sbagliate.

Insomma, un’esperienza intensa, una condivisione di esistenze segnate e ri-di-segnate, che in due ore hanno in-segnato tutti i presenti, studenti e docenti. Sullo sfondo il terribile capitolo della lotta armata, con in mezzo le pagine di disarmi dovuti e poi voluti, materiali e morali. E, visto che ci siamo, vale la pena ricordare che il termine è connesso a “ramo” e che entrambi si ricollegano ad “arm”, la parola inglese che indica il braccio poiché, fino alla comparsa dell’esplosivo almeno, la guerra si faceva a forza di braccia. Ma queste servono anche ad altro, ad abbracciare per esempio…e all’inizio si diceva che gli incontri sono fatti anzitutto di gesti: ebbene di questo si è trattato, di un grande, dis-armante (appunto!) abbraccio tra generazioni, tra dolori, tra ferite, tra storie di carne. E di un innesto di speranza nei giovani virgulti del Modigliani da parte di due alberi vibranti vita e sapienza, Franco e Agnese, all’ombra dei quali è possibile trovare ristoro dai deserti della retorica, della solitudine, del nonsenso.


FontePhotocredits: Michela Conte
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Sono un'insegnante, anche se il più delle volte sono io quella in-segnata dai miei studenti. Sono una ricercatrice, perché cerco piste di rilevanza pubblica per una materia troppo fraintesa e troppo di nicchia: la teologia. Sono una giornalista e faccio cose con le parole. "Quello che non ho è quel che non mi manca" (F. De André) e sono immensamente grata alla vita perché, non senza impegno e sacrificio, "ho trovato amore nel mezzo de la via, in abito legger di peregrino" (Dante Alighieri, Vita nova)