UNITI IN NOME DELLA GUERRA

Sostegno ad oltranza a Kiev, questa la promessa di Bruxelles. L’Unione Europea, nata per promuovere la pace, rivela una sconosciuta attitudine al conflitto e un nervosismo interno.

Bruxelles ha deciso: sostegno ad oltranza a Kiev finché sarà necessario, finché la Russia e Putin non falliranno. La difesa dell’Ucraina è divenuta la priorità assoluta per l’Unione Europea che vuole salvaguardare l’ideale della pace e il valore giuridico dell’integrità territoriale che il tiranno russo ha osato violare. L’Europa ha promesso armi e tutto l’aiuto necessario per il popolo martoriato, che si è concretizzato intanto attraverso iniziative politiche e incontri con Volodymyr Zelensky, che  gongola per tanta vicinanza e per tanto sostegno. Nel Consiglio Europeo recente Francia e Germania hanno trainato le fila delle decisioni dell’Unione, creando una frattura, politica l’ha definita Giorgia Meloni, con l’Italia e non solo. Il nostro primo ministro ha così commentato l’iniziativa di Macron: “Francamente mi è sembrato più inopportuno l’invito a Zelensky di ieri. Perché credo che la nostra forza in questa vicenda sia la compattezza e io capisco le pressioni di politica interna, il fatto di privilegiare le opinioni pubbliche interne, ma ci sono momenti in cui privilegiare la propria opinione pubblica interna rischia di andare a discapito della causa e questo mi pare che fosse uno di quei casi”.

Francia e Germania hanno risposto che il dossier sulla questione è aperto da otto anni, da quando la crisi nel Donbass è scoppiata, facendo rilevare una certa esclusività sull’argomento.

Nonostante i dissidi interni, che non riguardano solo la questione della guerra ma che riaffiorano su tanti altri temi (vedi migranti) sembra che in questo momento storico l’Europa dei 27 abbia preso a cuore la questione della guerra con una certa cocciutaggine e con la perdita di visione con cui essa era nata. Si dimentica il contesto nel quale l’allora CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, nacque anticipando di qualche anno la Comunità Europea. Un azzardo, potrebbe esser parso all’epoca, che Monnet, Schuman, Adenauer e De Gasperi rischiarono di correre ma che si rivelò decisivo per il progresso di pace, ossia quello di mettere in comune un mercato peculiare che aveva portato alle sanguinose dispute Francia e Germania, che si contendevano territori divenuti simbolo del dramma delle due guerre. La pace allora come una scommessa vinta e come simbolo del progresso umano dei popoli del Continente. Lo stesso Manifesto di Ventotene, di cui Colorni, Rossi e Spinelli furono gli ideatori, nacque nell’esilio della opposizione al fascismo e nel dramma del conflitto mondiale per promuovere l’Europa libera e unita. Libera e unita, ma oggi l’Unione Europea, ereditiera di questi due esempi, lo è davvero?

Nel Trattato di Lisbona si dichiara nel preambolo: “[…] decisi ad attuare una politica estera e di sicurezza comune che preveda la definizione progressiva di una politica di difesa comune, che potrebbe condurre ad una difesa comune a norma delle disposizioni dell’articolo 42, rafforzando così l’identità dell’Europa e la sua indipendenza al fine di promuovere la pace, la sicurezza e il progresso in Europa e nel mondo”.

All’Europa manca una politica di difesa comune, che Macron spesso rievoca come urgenza, quello stesso Macron che con Schulz opera quasi al buio, facendo irritare gli altri Stati dell’Unione Europea. Perché, prima ancora di una difesa comune, ci vorrebbe una visione comune, una comunione di intenti su un dossier che non può essere solo prerogativa di due Stati, ma che ne va del bene e della sicurezza di tutta l’Europa, che non è solo quella elitaria dei 27. È normale che Giorgia Meloni si risenta, un po’ come gli altri leaders, e che si senta tagliata fuori dai tavoli che contano. Ma noi italiani siamo abituati a restare alla porta e ci illudiamo di avere un peso specifico. Ma questa è un’altra storia.

Creare una politica di difesa comune aiuterebbe l’UE a non sentirsi vincolata ai destini della NATO e soprattutto degli USA, che in questo conflitto sono i veri antagonisti dei russi e che con le loro strategie cercano di alzare il livello della contesa. Diventare indipendenti per svolgere un ruolo di mediazione e di diplomazia che in questo anno è quasi mancato, perché colpisce la volontà dell’Unione di andare in fino in fondo, finché Mosca non fallisca, finché Mosca non perda, dimenticando che il suolo europeo è stato lo scenario principale su cui si sono combattute le due guerre mondiali. La storia insegna, ma l’uomo dimentica. Dov’è finita l’anima che aveva mosso i fondatori della CECA e poi della CEE, che avevano azzardato un mercato comune del carbone e del ferro per arrivare alla pace? Dove sono finiti gli ideali del Manifesto di Ventotene, e in particolare quello di creare un’Europa unita e libera? Come ha fatto l’UE a perdere di vista i principi che aveva enunciato nel preambolo Trattato di Lisbona soltanto nel 2007?

Domande a cui la già citata storia darà risposta, a breve. L’Europa avrebbe potuto giocare un ruolo importante di conciliatore, cosa che adesso la Cina, sta cercando di avviare, anche per interessi economici e in maniera ambigua. Biden intanto agita le acque con le sue visite di cortesia a Zelensky e in Polonia, alle porte del tiranno a cui bisogna dire “no, no, no”, alimentando il fuoco che potrebbe drammaticamente divampare. Putin invece, nel suo discorso alle Camere unite alla Duma, fa capire che non si fermerà e che l’invasione è frutto della volontà dell’Occidente di fare “carte false” per far fuori la Russia, di cui è in gioco l’esistenza.

Dopo un anno di guerra, aleggia la nebbia e l’aria sporca, direbbe Shakespeare, nebbia che si infittisce e attanaglia le poche speranze di pace, che l’Europa persegue in nome di una guerra giusta, necessaria e tanto pericolosa.