
…all’uomo di oggi sta a cuore il controllo matematico, logico, preciso di tutto e di tutti
Eravamo stati avvertiti sull’inedita follia di questa primavera, sui suoi picchi e sui suoi crolli improvvisi. E forse la conclusione più ricorrente e logica di queste settimane è stata: «non esistono più le mezze stagioni!».
Effettivamente l’alternanza di giornate calde, piacevoli e soleggiate e di giornate piovose, ventose, praticamente invernali presta il fianco ad indubbie scomodità pratiche e disagi per la salute. Ma non solo: la primavera, l’autunno ci sembrano inesistenti e questo spinge ciascuno a fare il proprio commento in proposito.
Sono convinta che dietro ogni espressione e parola usata e abusata si nascondano mentalità e modi di fare molto precisi. Di conseguenza mi viene spontaneo considerare come la difficoltà relativa alle mezze stagioni celi, in realtà, una grande carenza umana, ossia la non accettazione della carenza stessa! Se una stagione è di mezzo, non dovrebbe per natura contenere in sé quell’indefinitezza tipica delle cose sospese? Non dovrebbe essere normale l’impossibilità di controllare qualcosa che di per sé non ha confini netti, precisi, che vive tra due estremi?
Provo a spiegarmi meglio: all’uomo di oggi sta a cuore il controllo matematico, logico, preciso di tutto e di tutti. La fede stessa troppo spesso viene descritta come l’unica via per trovare le risposte a tutte le domande e le soluzioni a tutte le paure e gli enigmi esistenziali. Basterebbe, invece, imparare a restare senza risposte e senza definizioni, sospesi nel silenzio, per tornare in confidenza con quelle domande aperte che ci fanno percepire fin dentro la carne le vibrazioni della vita.
Forse l’essere cresciuta di fronte ad un vigneto sterminato e in una famiglia di agricoltori, la vita della quale scorre a ritmo di eventi legati al ciclo della terra, mi ha resa particolarmente sensibile a trarre dalla natura e dalle stagioni i migliori insegnamenti. Sta di fatto che secondo me in esse si nasconde il segreto della vita autentica e mi sono sentita particolarmente compresa da una giovane ebrea degli anni quaranta, Etty Hillesum: ella, nel suo struggente diario racconta di un rapporto quasi amoroso con un albero fiorito a primavera.
No, non possiamo permetterci di tralasciare nemmeno il più piccolo dettaglio delle meraviglie delle quali siamo circondati. Anche l’apparente bipolarismo di una mezza stagione può dire tanto, aiutarci a meditare e a ritrovare il gusto della domanda come atteggiamento esistenziale e credente maturo, spronarci ad andare alle radici delle parole, affinché servano non solo e non tanto a determinare cose, bensì anche e soprattutto ad esprimere emozioni.
Simone Weil, un’altra ebrea, filosofa, mistica con una storia tutta particolare, quando racconta con parole cariche di pathos del suo incontro con Dio, dice che «non era più inverno, non era ancora primavera». Come se l’incertezza climatica fosse la metafora più adatta a descrivere la stagione di un cuore colpito, cambiato, performato da un incontro, eppure sempre incapace di esprimersi e, perciò, perennemente in ricerca.
Non ce ne accorgiamo perché preferiamo la nettezza del bianco e del nero e la precisione dei confini, entro i quali la sicurezza è garantita e la tranquillità è di casa: ma le cose più belle e più particolari della vita sono legate a momenti non totalmente definibili e descrivibili, nei quali scorre una gamma sconfinata di sfumature e i suoni acuti si diradano in mille tonalità differenti.
Perciò sediamoci alla scuola delle mezze stagioni: la repentinità dei cambi climatici e la coesistenza di pioggia e sole, luci e ombre, caldo e freddo non potrà che fare bene al sé di ciascuno, al bisogno insopprimibile ma inascoltato di saper tenere insieme la complessità, alla vitale necessità di restare sempre con il languore delle risposte per evitare di fagocitare ogni cosa. Per poi rigettarla, rimanendo sempre, drammaticamente affamati e denutriti.