Intervista a Mariangela Mari, dott.ssa in tecniche delle riabilitazione pschiatrica
In occasione del quarantesimo anniversario della Legge Basaglia (n. 180, promulgata il 13 maggio 1978), Odysseo ha scelto di solcare differenti, ma sempre attuali, mari dell’emarginazione, attraccando negli scomodi porti del pregiudizio psichiatrico, evitando con cura (farmacologica e non) di censire gli esseri umani sia in base al loro passato delinquenziale che in vista di un futuro ancora possibile. Anche per questo abbiamo deciso di intervistare Mariangela Mari, dott.ssa in Tecniche della Riabilitazione Psichiatrica e gentile testimone di una giusta integrazione medico-sociale.
Ciao, Mariangela. Ciò che spinge il nostro giornale a raccontare storie come la tua è la curiosità. Cosa ha spinto, invece, una giovane ragazza come te ad approcciarsi professionalmente al mondo della Psichiatria?
Il tutto è avvenuto con estrema naturalezza. La propensione verso l’altro e le sue fragilità mi hanno coinvolta fin da piccola. Già dalla scelta del percorso di studi dopo la scuola media sino a giungere all’Università: diventare un Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica era il mio principale obiettivo. Un percorso di studi intenso e, al tempo stesso, affascinante che conciliava la medicina con la psicologia. Una scoperta dopo l’altra, sempre con la consapevolezza di poter dirigere la mia conoscenza verso il recupero delle abilità perse laddove la malattia mentale si è insediata sconvolgendo la vita di chi ne è portatore, di chi ne è al fianco e di chi, come molti, non hanno alcuna idea di cosa sia e come si tratti.
Il mio ruolo come professionista della riabilitazione psichiatrica, in fondo, è quello di riconoscere le risorse insite sia nella persona verso la quale il progetto riabilitativo è rivolto, sia verso l’ambiente che la accoglie o che, ci sia augura, si prenda cura di questa. Riconoscere inoltre il diritto ad avere dignità umana pari a quella di chiunque altra.
Esistono ancora pregiudizi riguardo al ruolo dei pazienti sottoposti a cure farmacologiche? In tal caso, cosa si può fare di concreto per sensibilizzare l’opinione pubblica ad abbattere l’omertoso muro che si erge contro l’integrazione sociale di queste persone?
I pregiudizi esistono quando non si conoscono le cose, quando non si hanno informazioni precise in merito ad una certa materia. Si chiamavano “alienati” un tempo coloro che soffrivano di un disturbo psichiatrico. Ancora oggi rivolgersi ad uno psichiatra o psicologo resta un tabù. Eppure chi riconosce un bisogno e poi chiede aiuto e supporto ha già fatto un passo in avanti verso la “guarigione” non strettamente fisica, sia chiaro, ma sociale, morale, psicologica. Io non prescrivo farmaci, non è mio compito, ma ritengo che se, dopo studi scientifici approvati, approfonditi e dimostrati, questi siano stati introdotti per alleviare la sofferenza, vorrà dire allora che servono; ed un paziente “compensato” farmacologicamente, vi assicuro, è maggiormente facilitato al lavoro riabilitativo di cui mi occupo. Mi hai posto le tue domande dopo aver scoperto quale fosse la mia professione. La tua curiosità, Micky, mi permette di rivolgermi a te, ma contemporaneamente ad un pubblico più ampio per raccontare il “mondo” psichiatrico: ecco, è in questo modo che tento di sensibilizzare l’opinione pubblica, divulgando informazioni spero corrette.
La chiusura dei cosiddetti vecchi “manicomi”, decretata dalla Legge Basaglia del 1978, ha sollevato una diatriba ancora irrisolta. Credi sia possibile intervenire diversamente sul recupero psicologico di uomini, in taluni casi autori dei reati più efferati, anche senza violenza e/o costrizione?
La legge 180 del ’78, ha fatto dell’Italia il primo, e finora unico, Paese al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici (ex manicomi) favorendo col tempo la costruzione di strutture più adeguate e organizzate per garantire e rispondere al bisogno di salute mentale, riconoscendo appieno i diritti e la necessità di una vita di qualità dei pazienti, seguiti e curati da strutture territoriali. Le modalità e le forme più atroci di contenimento un tempo usate per gestire gli animi violenti ed aggressivi, unica loro forma di difesa, dei pazienti all’interno degli ospedali psichiatrici, oggi sono un ricordo lontano. Per ogni forma di problematica mentale, dalla più grave alla più lieve, c’è sempre una possibilità di recupero. Il paziente psichiatrico autore di reato è un paziente difficile da trattare, un paziente cosiddetto ad alta “fragilità”, ma pur sempre una persona a cui va garantita assistenza e cura alla stregua di altri pazienti.
Sempre la Legge n.180 del 1978 impone di demandare le cure anche al consenso del “malato”. Qual è la più importante responsabilità che voi operatori dovreste assumervi?
Per qualsiasi tipo di trattamento, sia esso volontario che obbligatorio, è indispensabile avere il consenso di chi lo subisce, legittimando l’azione del medico e degli operatori sanitari, e riconoscendo il paziente protagonista del percorso di cura dell’intervento terapeutico. La presa in carico, il riconoscimento della dignità umana e dei bisogni di salute della persona, oltre che l’applicazione e l’utilizzo di tutti gli strumenti a disposizione che consentono di restituire e/o recuperare le abilità che la malattia mentale ha inficiato, favorire l’integrazione, l’informazione e l’accoglienza di queste persone nel proprio contesto di vita e laddove non ci fosse, crearne le opportunità: queste le nostre responsabilità quotidiane. Se non credessi nel recupero e nel buono che c’è in ciascuno degli ospiti inseriti nella comunità dove lavoro, non farei ciò che faccio, non mi applicherei nella ricerca di nuovi orizzonti culturali ed informativi per raggiungere la tanto famigerata e temuta (dai non addetti al lavoro) possibilità di cambiamento di questi ragazzi.
Progetti futuri?
In realtà non sono una ragazza che guarda troppo lontano, il mio futuro è domani quando mi sveglierò alle 6 per andare a lavoro a 45 km da casa, sempre con l’entusiasmo di leggere e interpretare gli occhi di chi si fida e affida a me, a noi operatori della salute.
Sono abituata a vivere di istanti e a quanto pare destinata a ricevere sorprese che mi auguro siano buone tra qualche tempo.