L’alfabeto di Dante
«O gente umana, perché poni ‘l core / là ‘v’è mestier di consorte divieto?» (Purg. XIV, 86). Non può che avviarsi da qui il tema dell’odierno “alfabeto” di Dante. Per il poeta il cuore è la sede dei sentimenti e delle scelte, è quello spazio sacro in cui l’uomo consuma la sua quotidiana lotta tra bene e male. Più volte l’Alighieri si chiede perché l’uomo ponga il suo cuore, e quindi la sua sicurezza, nelle cose materiali, quelle cose che scemano quanto più le si divide («mestier di consorte divieto»). Così il cuore diviene anche la sede del desiderio che brucia nell’uomo:
Perché s’appuntano i vostri disiri
dove per compagnia parte si scema,
invidia move il mantaco a’ sospiri. (Purg. XV, vv. 49-51)
Nel Purgatorio, la cantica forse più vicina all’esperienza quotidiana della «nostra vita», si legge delle zone d’ombra e di luce che abitano il cuore dell’uomo. Il suo desiderio arde per il denaro e il successo, gli onori e la fama, la gloria che viene da un buon nome o dall’aver assunto una posizione di rilievo nella società. Dante, invece, lui che ha dovuto rinunciare a tutte le sicurezze, ai suoi affetti più cari e alla sua amata città –Firenze- perché confinato all’esilio, afferma che il cuore non può appagarsi in queste cose. Perché? Secondo il poeta, il desiderio dell’uomo arde fino a quando non abbia trovato ciò che lo appaga; e in questa ricerca capita che egli confonda un bene piccolo con il bene sommo, quello che lo può appagare definitivamente. Non è anche questa la nostra esperienza? Quante volte crediamo di essere definitivamente soddisfatti dopo essere entrati in possesso di quella cosa che volevamo da tempo, salvo poi scoprire dopo poco tempo, che quella cosa non ha più il valore assoluto che aveva prima, e quello che sembrava coincidere con la nostra felicità, di colpo appare illusorio e caduco.
Dante insegna che il cuore può ingannarsi, che il segreto della felicità non è nel riempire l’esistenza di cose o onori. Papa Adriano V, a poco più di un mese dalla sua elezione, comprende che neanche quella carica altissima aveva appagato il suo cuore:
«Un mese e poco più prova’ io come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte l’altre some.
La mia conversione, omè!, fu tarda;
ma, come fatto fui roman pastore,
così scopersi la vita bugiarda» (Purg. XIX, vv. 103-108)
Adriano è exemplum di avarizia, vizio legato al denaro ma anche all’ambizione. Egli afferma che «il gran manto», ovvero la dignità papale evidentemente ambita più di ogni altra cosa, ora appare un’incombenza rispetto alla quale tutti gli altri pesi sono una piuma. Ecco allora che quella vita stretta nella morsa dell’avarizia, si rivela «bugiarda», ingannatrice. Anche ora che è «lì», sul trono pontificio, sentito sino a quel momento come il grado più elevato di una “carriera”, il suo cuore continua a non essere appagato:
«Vidi che lì non s’acquetava il core,
né più salir potiesi in quella vita;
per che di questa in me s’accese amore.» (Purg. XIX, vv. 109-111)
Dante lo aveva detto già nel Convivio: «l’avaro maledetto…non s’accorge che desidera sé sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giugnere» (Cv III XV 9); ma ora, all’altezza della Commedia, le parole del trattato diventano una straordinaria pagina di poesia che dice qualcosa anche della «nostra vita» (Inf. I, 1).
Oggi, infatti, in una società che si regge sul denaro e il capitale, che «cerca di trasformare ogni tipo di avvenimento in valutazione monetaria»[1], e che non esita ad aprire nuovi scenari di guerra pur di accrescere l’economia della parte fortunata del mondo a discapito dei paesi poveri, non si può certo affermare che l’avarizia sia un vizio biasimato. In nome di un’economia globale che guarda e salvaguarda i poteri forti, si lasciano indietro i deboli, calpestando i loro diritti e perfino la loro dignità. E che ne è dell’uomo? La pretesa di «autonomia dell’economia, che non deve accettare influenze di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo distruttivo. A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici non in grado di assicurare la giustizia che promettevano» (Papa Benedetto XVI, Caritas in veritate 34).
Si impone da sé l’attualità del messaggio dell’Alighieri, che in uno dei versi più belli di tutto il poema – «Vidi che lì non s’acquetava il core»-, condensa la profonda realtà della vicenda dell’uomo sulla terra, bisognoso di liberarsi dalle scorie del male per tentare «l’alto volo». Il cuore dell’uomo non sembra essere fatto solamente per le cose; la sua felicità non può coincidere con una vita «del tutto avara» (Purg. XIX, 113). La Commedia afferma che vi è una vita ben più preziosa di quella desiderata dalla maggior parte degli uomini:
Oh gioia! Oh ineffabile allegrezza!
Oh vita integra d’amore e di pace!
Oh sanza brama sicura ricchezza! (Par. XXVII, vv. 7-9)
[1] Giovanni Cucci, Il fascino del male. I vizi capitali, 2008, Roma, Edizioni AdP, 2008, pag. 169.