Frammenti d’una storia sentimentale

Prima di accingersi a leggere le righe che seguono, il lettore ha diritto a qualche informazione sulla figura di cui parlerò. Agostino Casati, questo il suo nome, nasce a Rho, il 2 agosto 1897, in un famiglia numerosa, molto povera. Ancora adolescente, lavora nelle Ferrovie dello Stato, s’iscrive al sindacato e sarà tra i fondatori del partito comunista. Costretto alla clandestinità durante il regime fascista, diventa “rivoluzionario professionista” e completa la sua formazione politica in Russia. Emigrato poi in Francia, prende parte alla guerra civile spagnola, divenendo il comandante Rajmond. Deportato nel campo del Vernet, sui Pirenei, in seguito viene confinato a Ventotene. Liberato l’8 settembre 1943, rientra a Rho dove contribuisce in modo determinante alla liberazione della città, diventandone il primo sindaco all’indomani della Liberazione. Questa la sua figura pubblica. Ma per me, chi era Agostino? Il fratello di mio zio Angelo, ma soprattutto qualcuno che ha riempito la mia fantasia di adolescente e di giovane. Ancora oggi lo ricordo con commozione. In attesa di tempi meno grami, sono contento di dedicagli almeno questi Frammenti.

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Negli anni cinquanta, quand’ero bambino, Rho, anche se ormai in piena trasformazione da paese agricolo a polo industriale alle porte di Milano, somigliava ancora un po’ al paese in cui Agostino Casati era nato: vasti campi, coltivati a mais e frumento, strade bianche, bordate di robinie miste ad arbusti di sambuco, che a primavera s’imbiancavano rilasciando nell’aria un intenso profumo. Nei lunghi canali che solcavano i campi, nelle ore serali scorreva l’acqua limpida per l’irrigazione: noi bambini, al colmo dell’eccitazione, correvamo fino allo sfinimento per non esserne travolti, prima di rientrare in casa richiamati dalle voci minacciose dei genitori, stremati, incapaci di finire il Padre nostro e le Avemarie che c’imponevano come una penitenza necessaria.

È a quegli anni, tra la fine degli anni quaranta e l’inizio dei cinquanta, che risalgono i primi ricordi di Agostino Casati che la mia memoria custodisce, sia pure con intermittenze. Il suo nome ritornava spesso nelle conversazioni tra adulti che a noi bambini avveniva di ascoltare. Mio padre lo chiamava familiarmente ’l Gustin. Diversamente dallo zio Angelo, suo fratello, che viveva con la famiglia in una minuscola casa ai bordi d’una strada di campagna, ’l Gustin era inequivocabilmente un personaggio importante, qualcuno a cui si alludeva abbassando il tono della voce per una sorta di pudore. Nelle parole di mio padre ’l Gustin era sinonimo di persona onesta, brava persona, uno cui neanche un centesimo (un ghèi) di danaro pubblico era rimasto attaccato alle mani. Nei suoi discorsi mio padre non tralasciava di aggiungere, e questo a me non era chiaro, che era comunista, ma pur sempre una brava persona. Non capivo perché bisognasse ripetere ogni volta che Agostino era una brava persona. Ma poi, come poteva essere una brava persona, pensavo nella mia ingenuità, se sulla porta della Chiesa, dove servivo messa ogni mattina, c’era affisso che i comunisti erano scomunicati e apostati? Come poteva uno scomunicato, apostata per giunta, essere una brava persona? L’alone di mistero che avvolgeva la figura di Agostino ne aumentava il fascino. Un fascino che non s’è attenuato negli anni.

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Nell’abitazione di Via Livello al n. 8, suo padre Antonio, il casellante, aveva l’abitudine di ritrovarsi  coi compagni ferrovieri; in cucina, intorno al tavolo, davanti al mezzo bicchiere di vino rosso di qualità scadente, discutevano animatamente di soprusi, scioperi, occupazioni, contratti. Agostino, irrequieto, già allora ribelle, ascoltava. Sull’impronta lasciata dagli insegnamenti di don Giulio, un giovane cappellano del lavoro, si depositavano in lui altri semi, provenienti dalle idee e dalle pratiche del sindacalismo rivoluzionario, avverso al riformismo, tenace nel coniugare economia e politica, radicato nel terreno classista. Poi, quando il sindacalismo rivoluzionario virerà a destra, avvicinandosi al fascismo, deluso anche da un partito socialista impantanato nel riformismo, Agostino sarà precoce nell’aderire alla rivoluzione bolscevica.

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Nelle famiglie povere, e non solo, si cominciava a lavorare molto per tempo. Mio padre fu posto accanto al deschetto d’un ciabattino quando non aveva ancora dieci anni. A diciassette, in una foto, appare alto, magro, i tratti marcati, da adulto. Era già operaio in un calzaturificio. Martello e treppiedi in ghisa girarono per casa finché visse. Risuolare e mettere i tacchi alle nostre scarpe era un suo vanto: me lo ripeteva con orgoglio, togliendosi di bocca uno dopo l’altro i chiodini che servivano a fissare le suole.

Agostino, con un padre casellante, aveva il destino segnato; appena possibile, a 17 anni, nella primavera del 1914, viene messo a lavoro come garzone avventizio nelle ferrovie. La dottrina e la pratica del sindacalismo rivoluzionario, a lungo presenti nel sindacato dei ferrovieri, ha avuto indubbiamente un ruolo importante nella sua prima formazione politica.

Abbastanza presto, però, il sindacato gli riesce piuttosto stretto: troppo volto a  specifiche rivendicazioni economiche, incapace di un’apertura universale sul mondo, le sue miserie, le sue povertà, le sue ingiustizie. Forse, per la sua indole insofferente, Agostino sentiva il bisogno dell’utopia e della disciplina. Utopia e disciplina sembra promettere la luce che, in quegli anni, s’è accesa all’Est: un’utopia rivoluzionaria che scavalca le frontiere, un cambiamento radicale, capace di creare rapporti nuovi tra gli uomini, una disciplina di partito che ha la sua avanguardia negli operai. Si tratta d’una navigazione tra Scilla e Cariddi: Agostino, con quale consapevolezza non è dato sapere, d’istinto, accoglie la sfida.

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Nel maggio 1920 è congedato, ma non pensa un solo istante a smobilitare. Dopo tante morti, tanta sofferenza, non si può più attendere, restare inerti, si vuole che le cose cambino. E la luce che viene dall’est è pungolo per «fare come loro», come i bolscevichi. Per questo, appena reintegrato nel suo posto di lavoro, si trova nel mezzo delle occupazioni: gli operai prendono possesso delle fabbriche, i braccianti sono in permanenza sui latifondi. Agostino è immediatamente a fianco dei lavoratori che hanno occupato la Chimica Bianchi di Rho. Il Consiglio di fabbrica, operai e maestranze, intuiscono  a volo le sue doti e lo designano direttore dello stabilimento, per un tempo breve, ahimé. Con una naturalezza che stupisce, il giovane organizza i turni, assicura la produzione, impedisce i sabotaggi e i furti, non cede a tentazioni luddiste. Non c’è dubbio: un leader è nato, e nel posto giusto, là dove si lotta e s’inventa un modo nuovo di stare in fabbrica, di vivere la democrazia. Ma con quale consapevolezza vive i giorni dell’occupazione? Che coscienza ha del loro significato? Difficile dirlo: nell’ora dell’azione, emozioni, sentimenti, pensieri sono indistricabili.

Di fatto, sono giorni convulsi, esaltanti, quelli dell’occupazione. Il 5 settembre 1920, una domenica mattina, Agostino lascia la fabbrica in custodia ad alcuni compagni, varca i cancelli, e subito l’occhio corre sugli striscioni mentre s’incammina verso il centro di Rho. Respira a pieni polmoni, avverte un senso di libertà, anche se le nubi già s’addensano sulle fabbriche occupate. A un’edicola acquista «L’Avanti!», edizione di Torino: in prima pagina un titolo l’afferra, Domenica rossa. Lo ha scritto Antonio Gramsci. Mano a mano che procede nella lettura, il cuore gli si gonfia: le parole che legge lo riguardano, riguardano i compagni che ha lasciato a guardia della fabbrica. Il significato di quel che ha fatto con loro, d’istinto, gli appare chiaro: comprende di far parte d’un progetto di trasformazione della società che lo supera, un progetto nel quale lui e i suoi compagni sono però delle tessere necessarie.

Forse Agostino, quell’articolo, non l’ha letto, o magari lo avrà letto più avanti, quando per l’ignavia del partito socialista e del sindacato, con rammarico, l’esperienza delle occupazioni verrà liquidata al prezzo d’un aumento di salario e una parvenza di potere nella fabbrica e nell’organizzazione del lavoro. Il potere dello Stato non è stato minimamente intaccato. Contrordine, compagni, la rivoluzione è rinviata… E lì comincia un’altra storia.

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Qualche tempo fa m’è capitata tra le mani una vecchia brochure dedicata a Agostino Casati. Una pubblicazione modesta, con qualche refuso di troppo, ma che conteneva come una perla queste righe degne di un incipit quasi epico:

Il luogo della riunione è stabilito ai “Tri incaster”, contrada Ghisolfa, e numerosi compagni sono già da tempo in attesa. Sono giunti alla spicciolata e da diverse strade per evitare il pericolo d’essere scoperti. È una fredda e umida sera di una primavera appena iniziata e la riunione si svolge al chiaro di luna e tra il gorgoglio dell’acqua che si dirama in tre piccoli canali d’irrigazione…

Un incipit formidabile per dare inizio alla storia della militanza di Agostino Casati: una riunione clandestina, in un luogo misterioso, vicino alla ferrovia, tra il gorgoglio dell’acqua dei canali, cui partecipa nientemeno che Antonio Gramsci. Evento davvero impareggiabile! Il verbale precisa che la riunione ha luogo il 24 aprile 1924; a prepararla sono i compagni Agostino Casati e Angelo Castelli, che attendono alla stazione ferroviaria di Rho il compagno Gramsci, rientrato da Vienna perché eletto deputato. Devono scortarlo fino al luogo dell’incontro clandestino, nei pressi della casa cantoniera di cui il padre di Agostino è casellante.

Agostino, a 27 anni, uscito indenne da una giovinezza inquieta anche grazie all’autorevolezza di don Giulio, prete straordinario, possiede una personalità di spicco: è stato in guerra, ha guidato scioperi ed occupazioni di fabbriche durante il biennio rosso, è stato delegato a Convegni e Congressi che hanno portato alla nascita del partito comunista. La sua bussola sembra non aver conosciuto oscillazioni. Sarà un rivoluzionario professionista.

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Da giovane, quando dal comune montano dov’ero insegnante, tornavo a Rho, mi capitava talvolta d’incontrarlo in una strada adiacente alla ferrovia, non lontano dal negozio e dall’abitazione dei miei genitori. La mano poggiata al manubrio della vecchia bicicletta con i freni a stanghetta, Agostino, i capelli candidi e sottili, era circondato da alcuni fedelissimi, ferrovieri in pensione, anziani militanti, operai. Appena mi scorgeva, m’apostrofava chiamandomi nipote, quasi avesse voluto prendere il posto dello zio Angelo, morto troppo presto.

Dopo il 1972, anno della morte di Agostino, conobbi alcuni ferrovieri militanti. In particolare ne ricordo uno, prossimo ai cinquant’anni, basso e magro. Arrivava trafelato dal dopolavoro della Ferrovia per partecipare alle riunioni del pdup nelle due stanzette che avevo strappato a mio padre e affittato ai compagni. Molto informato sull’attualità politica, le sue analisi erano precise, puntuali: durante i momenti morti del lavoro, nei locali lungo la ferrovia, leggeva e si documentava. I nostri discorsi gli apparivano un po’ astrusi; con pazienza, senza farci la lezione, ci riportava con i piedi per terra. Ascoltandolo, in lui ritrovavo Agostino.

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Mi sta aiutando molto in questo viaggio nel passato Mariantonia, la nipote di Agostino. È stata una giovanissima staffetta nei giorni precedenti la liberazione ed oggi ha ancora una memoria viva, oltre ad un’indubbia capacità di scrivere. Negli anni, non ha smesso di annotare su un quaderno dei pensieri non banali, in un italiano piacevolmente retorico, appreso a scuola, quando ancora si leggeva il libro Cuore con totale adesione e schietta ingenuità. Vive in una casa che s’è fatta troppo grande senza i tre figli che ha allevato dignitosamente infilando perline e cucendo paillettes su abiti d’alta moda, destinati a boutiques prestigiose e a teatri milanesi. Sul grosso quaderno, che mi mostra con visibile orgoglio, negli anni ha registrato in bella grafia, con precisione maniacale, le date dei lavori eseguiti e i ricavi. Alle pareti delle stanze, quadri e piccoli arazzi testimoniano di un’abilità artistica e una manualità notevoli.

Non ha niente dell’anziana querula che si lamenta in continuazione dei suoi mali e non accetta d’essere trattata con condiscendenza dai medici, cui non teme di ricordare che, in un momento importante nella storia del nostro paese, lei c’era, e stava dalla parte giusta. In alcune fotografie ufficiali compare accanto allo zio Agostino, timida, col velo in testa, come per una cerimonia religiosa. Acconsente di buon grado a parlarmi di lui, quando le chiedo di raccontarmi ciò che ricorda degli anni della guerra e della liberazione. L’ultima volta che l’ho vista ha accennato un motivetto e  poi ha recitato:

Pietà, Tedesco, non farmi morire,

che ho la moglie che soffre per me,

ma quel Tedesco crudele e assassino,

con un pugnale morire mi fa!

Sono i versi che intonava con impertinenza, subito zittita dalla maestra, spaventata quando i Tedeschi passavano giù in strada, sotto la scuola.

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Sono nella stanza semibuia dell’abitazione di Agostino Casati dove è stato composta la sua salma. La memoria continua a restituirmi sempre la stessa immagine. I testimoni, invece, mi dicono che Agostino è morto nella Casa di ricovero Carlo Perini e lì è stata allestita la camera ardente. Non ho motivo per scegliere tra il ricordo e la testimonianza. Di una cosa sono certo, quasi certo: il giorno della sua morte tornai dalla cittadina valtellinese dove insegnavo e mi recai nella camera ardente. Lì lo vidi: composto, vestito scuro, cravatta rossa, sul piccolo comodino, spiegata, L’Unità del giorno.

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Guardo la fotografia del comandante Rajmond, in piedi, lo sguardo proiettato in avanti, la cintura alta sopra la vita, severo, corrucciato: l’immagine della forza, del coraggio, dell’ardimento. Allestisco nella memoria una liturgia laica. I compagni, intorno, il braccio levato, scandiscono: Riposa in pace, compagno Casati. Le loro mani si chiudono nel pugno: non è una minaccia, è il segno dell’unità di quelli che lottano per la giustizia.

Nella mente risuonano le parole di mio padre, quelle che contano, alla fine: «‘l Gustin è stato una brava persona, una persona per bene, una persona onesta».


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Domenico Canciani ha insegnato Lingua e civilizzazione francese nell’Università di Padova, occupandosi di Minoranze, storia intellettuale nella Francia del XX secolo e nel Maghreb, dei temi del dialogo interreligioso curando gli scritti di Louis Massignon (L’ospitalità di Abramo. All’origine di ebraismo, cristianesimo e islam, 2002; La suprema guerra santa dell’islam, 2003). Da anni si dedica allo studio della vita e del pensiero di Simone Weil, pubblicando articoli e monografie. Nel 2012 il volume Simone Weil. Le courage de penser, sintesi delle sue ricerche, ha ricevuto il Prix Biguet de l’Académie Française. Con Maria Antonietta Vito ha avviato una sistematica traduzione e cura di molti scritti della pensatrice francese.