
Un numero, una vita: 106555… che sarà mai?
106555. Lo vedo ogni mattino mentre do la corda ad un vecchio orologio da tasca: è inciso nell’ottone, consunto tra mille voci, gravido ancora di storie, molte non raccontate nemmeno.
Altre solo da immaginare, forse da indovinare tra le albe di due guerre mondiali, tra i tramonti di volti cari, tra le scarne ma sincere gioie fatte di poco, di pochissimo, di fichi rubati all’albero della strada, di sorsi di vino robusto, di palloni intrecciati di pezze più volte rivoltate, di figli che arrivano, di altri che partono, di un altro che…chissà dove sarà!
È la matricola di mio nonno ferroviere, fiero nella divisa della milizia ferroviaria fascista, con un pistolaccio al fianco troppo grande per la sua mezza statura, trattenuto da un’ampia cintura inanellata; e un figlio, il suo primo figlio maschio, comunista, comandante di un drappello di giovani disperati che combattevano tra il gelo delle montagne del cuneese, ricercato dai nazisti, tre volte sul patibolo e tre volte graziato per “incongruenze nelle generalità”.
Una distanza tra padre e figlio che era più grande di quella fisica di un’ Italia lunga che, tra quelle montagne, quasi non si ricordava più del verde smeraldo delle acque joniche…
Altro paradiso, altro inferno; e purgatori di palpitanti attese di speranze che si nascondevano nelle pieghe degli allarmi, tra bombardamenti, treni da far partire, vite e libertà da salvare, e fame, fame, ancora fame da spartire con otto bambini e la moglie, l’unica tra i nonni che non ho mai conosciuto.
Morta di stenti, certamente di qualche malattia che oggi sarebbe una bazzecola da laboratorio… ma allora no; allora le diagnosi erano fatte di silenzi, si percepivano dalla fronte corrucciata del medico, e si affidavano all’unico grande crocifisso della casa.
106555: aveva conosciuto quella bella ragazza calabrese mentre, da finanziere, faceva servizio in Aspromonte; si era arruolato giovanissimo lasciando il sicuro avvenire da possidente agrario di una famiglia ancora oggi dedita alla produzione di pregiati vini del Salento.
Suo padre l’aveva diseredato perché egli preferì la divisa alle terre di famiglia, mentre il suocero, per salvarlo dalla incombente guerra di Libia, gliela fece dismettere trovandogli posto in ferrovia e permettendogli così di sposare sua figlia.
Anche l’altro nonno era ferroviere, che strano, no?
Tutt’altra pasta, fascista anche lui, rimasto tale per sempre anche se tra le critiche di tutti. Nessuna evidenza lo smuoveva. Fede incrollabile, uno di quelli morti nella convinzione che il fascismo fosse finito miseramente grazie a chissà quali oscuri tradimenti.
Quanto dice di un uomo la sua “buona fede”, e quanto ci illumina il fatto che, nella vita, è importante pure incontrare una “fede buona”, e qualcuno che ci educhi ad essa, che ce la faccia amare!
Silvio Pellico scrisse a proposito su una vibrante pagina de “Le mie prigioni”, quella in cui parla del proprio carceriere, un certo Schiller… che «Un uomo che opera in serena coscienza può errare, ma è puro dinanzi a Dio»…
Egli mi portava con sé, avevo 3 anni (!), sul locomotore a fare le manovre nella stazione ove lavorava, complice un mio zio, allora giovanissimo e “invincibile” conduttore; mia madre per decenni non lo seppe mai: questo segreto tra me e lui le fu rivelato solo qualche anno fa; e certo non mancarono tuttavia attempati ma acerbi rimbrotti gravati con gli interessi del caso!
Vide una ragazza sedicenne, bellissima, e ne fu rapito, perdutamente.
Si sposarono giovanissimi e lui se la portò in Grecia ove col padre aveva una piccola impresa di costruzioni: quando scesero dal traghetto, la gente sul molo non poté fare a meno di guardarla, invidiando il giovane sposo!
Lei è stata per me una vera presenza materna, così come la mia prima grande “tragedia” quando, avevo 17 anni, se ne andò tra lunghe sofferenze, tant’è che sulla sua pagellina volli proprio io alcune parole di Chiara Lubich che, da allora, mi furono sempre care per tutta la vita: «Il dolore è l’unica cosa scartata dal mondo ed è l’unica con cui ci si riempie di Dio».
Ora restano le voci che frusciano nei ricordi, le foto di certi silenzi…, gli sguardi, le feste con trenta persone in una sala di 20 metri quadri con un bagno solo e le scrivanie a corredo del tavolo “buono” per starci tutti, alcune coperte di lana bruna con la svastica lasciate da un soldato della Wermacht mentre scappava…
…e l’Amore.
Sì, l’amore che ho succhiato con loro in una terra povera ma buona, dove le mie radici trovano ancora sempre rassicurante frescura, il sostegno per l’oggi, per il domani; orientando il mio essere, specchiandomi nell’uomo che sono e che nessun cambiamento potrà distruggere mai.
E che nulla potrà impedirmi di trasmettere a chi amo.
Gabriele Perrucci