Dieci anni fa ci lasciava Pietro Mennea, il velocista figlio della nostra terra e campione olimpico a Mosca

La sua città natale, Barletta, gli ha dedicato il lungomare, il Golden Gala di Roma è ora intitolato a lui, Pietro Mennea ha segnato la storia dell’Atletica Leggera e non solo, perché ha fatto dello sport la sua sana ragione di vita e ha cercato sempre di migliorarsi.

Era il 21 marzo 2013 quando, dopo una lunga malattia, se ne andava la Freccia del Sud, il più grande velocista della storia dell’Atletica italiana, campione olimpico a Mosca 1980 e otto anni prima bronzo olimpico a Monaco 1972, nella gara vinta da Borzov. È stato detentore del primato mondiale sui 200 metri, ottenuto alle Universiadi di Città del Messico nel 1979 con quel 19.72 che soltanto un mostro sacro del calibro di Michael Johnson è riuscito dapprima a limare nei Trials americani del 1996 e poi a disintegrare in quella storica finale di Atlanta dove la Locomotiva del Texasfece registrare il tempo di 19,32, mentre Fredericks e Ato Bolton, rispettivamente argento e bronzo, andarono sotto i 20”. Poi arrivò Usain Bolt e niente fu come prima. Nella bacheca di Mennea ci sono ancora tre titoli europei, un titolo europeo indoor, cinque medaglie d’oro alle Universiadi e 8 medaglie d’oro ai Giochi del Mediterraneo, oltre a un innumerevole numero di piazzamenti sul podio, in tutte le competizioni. Il record italiano sulla distanza dei 100 metri di 10.01stabilito da Mennea, ha resistito fino al 22 giugno 2019, quando Filippo Tortu, altro oro olimpico nella staffetta di Tokio 2020, lo portò a 9.99, primo italiano a scendere sotto il muro dei dieci secondi. Jacobs ha migliorato il primato italiano di Tortu, ed anche quello europeo, fissandolo a 9.80, in quella gara di Tokio che per tutti noi resta una delle più grandi vittorie dello sport italiano. Per comprendere ancora l’importanza delle vittorie di Mennea, sempre considerando i numeri, va detto che l’attuale record europeo sulla distanza dei 200 metri è ancora quel 19.72 messicano, che resiste nonostante il periodo storico e il progresso dello sport. Non è mai stato un personaggio accomodante e tante volte non ha risparmiato critiche alla stessa Federazione Italiana di Atletica Leggera o come avvenne proprio all’indomani della vittoria di Mosca, quando fu l’unico a dire una parola di solidarietà e a dedicare la vittoria agli atleti italiani delle forze armate che dovettero seguire il diktat del CONI, che optò per un boicottaggio soft, e a rinunciare perciò alla gara più importante della loro vita. Ricordiamo infatti che, a causa dell’invasione dell’Afghanistan da parte dell’URSS, 64 Stati decisero di boicottare le Olimpiadi moscovite, a partire dagli Stati Uniti di Jimmy Carter. L’Italia gareggiò sotto l’egida della bandiera Olimpica e celebrò gli otto ori con l’Inno del CIO. In quel contesto esplose definitivamente il talento di Pietro che aveva l’occasione della vita, senza gli ostici e forse imbattibili americani e con l’assenza del bionico Borzov, suo grande rivale nel passato più recente. Mennea saltò i 100 metri, vinti da Wells, e si presentò ai blocchi di partenza con la consapevolezza di avere una chance unica. Quella gara, quei duecento metri possono essere il paradigma della sua vita, vissuta a gareggiare sull’asfalto con le automobili, ad allenarsi con rabbia e tenacia in allenamenti duri e asfissianti, mentre altri potevano farlo con le strutture, e forse anche con i prodigi della medicina, dunque con strumenti migliori. Non partiva favorito anche perché si trovava nella corsia esterna, che è la meno ideale per impostare e gestire una gara di velocità. E infatti all’inizio Mennea patì la corsa e gli avversari. Il rettilineo finale dei 200 metri fu un’autentica impresa per Mennea che iniziò a recuperare, metro dopo metro, fino a insidiare e superare il secondo Don Quarrie e a fiancheggiare l’oro olimpico Wells, beffato a ridosso dell’arrivo. Iconiche, come quelle di Martellini per la vittoria dell’Italia di calcio al Mundial 1982, furono le parole del commentatore Paolo Rosi: “Mennea cerca di recuperare, recupera, recupera. Ha vinto, ha vinto. Straordinaria impresa di Mennea”.

Fu davvero straordinaria l’impresa di Mennea, a prescindere dalle innumerevole assenze, perché la Freccia del Sudmeritava un titolo che aveva cercato con sana testardaggine e con il sudore degli allenamenti, avvalorato anche dal primato mondiale di Città del Messico che ad oggi lo rendono ancora l’uomo bianco più veloce della storia. Non un semplice dettaglio. Poi Mennea, nella vita ordinaria che rese straordinaria, si laureato per cinque volte all’università, è stato avvocato, commercialista, politico e parlamentare europeo, il classico esempio di chi ha speso la sua vita per gli altri. Anche correre in una corsia sul tartan non è una pratica solitaria, significa rendere felici un popolo, una città, una famiglia, che sa di poter contare su qualcuno che è lì a rappresentarli e a renderli orgogliosi. Lo sport in questo è fondamentale perché ha un forte potere di rappresentanza che altri settori del vivere comune, vedi la politica, hanno drammaticamente perso in nome di una spersonalizzazione cavalcante e crescente. La vita di Mennea è stata eccezionale, per dirla con le parole di Martellini, la straordinaria impresa di un uomo mai in pace, mai domo, eternamente in lotta con i suoi limiti e contro il tempo.