Alzi la mano chi ieri non ha detto: “È venerdì 17!” E così, mi sono proposto di sfatare un tabù che, volente o nolente, mi suggestionava da tempo: la sfiga esiste davvero?

Non è vero…ma ci credo” è una commedia scritta, nel 1942, da Peppino De Filippo. Dipanandosi lungo tre esilaranti atti, l’opera racconta le simpatiche vicende del commendator Gervasio Savastano, imprenditore di successo angariato da un’ansante e crescente superstizione, provocata, a suo dire, dagli influssi negativi di un impiegato, un certo Belisario Malvurio.

Rinfrancato dalla visione di questo autentico affresco dell’arte comica napoletana, ieri, Venerdì 17 marzo, che tra l’altro faceva seguito a un venerdì 17 febbraio, ho cercato di sfatare un tabù che, volente o nolente, mi suggestionava da tempo, credenze popolari che, per forza di cose, dovevano trovar fondamento su basi di avvenimenti fantozziani trasformatisi in leggende da tramandare e nuvolette da scacciare.

Ecco, appunto. Ai posti più bassi dell’immaginaria (ma scientificamente provata dai Padri della Smorfia) scala gerarchica della sfiga c’è proprio “l’ombrello aperto in un luogo chiuso“. Durata del malocchio? Un’ora circa. Indipendentemente dalla chiostra in cui si effettui l’insano gesto, la malaparata nasce, sostanzialmente, dalla cattiva fabbricazione a cui erano sottoposti gli ombrelli di un tempo. Rudimentali per concezione, una volta aperti, questi tetti artificiali disviticchiavano tutti i loro congegni appuntiti e, di conseguenza, la perniciosità per gli astanti assumeva notevole rilevanza.

Salendo un pò più in classifica ci vediamo costretti a “passare sotto una scala” (una settimana di iettatura). Diciamo la verità, chi di noi non ha mai fatto l’Amerigo Vespucci circumnavigando la postazione di imbianchini e elettricisti? Eppure il pericolo non è inteso solo nel rischio che ci cadano addosso potenziali arnesi mortiferi, quanto nella violazione sacrale di una figura geometrica. La commessura dei pioli infatti forma un triangolo e, attraversandolo, infrangeremmo le regole astrali di cateti addentellati fra l’uomo e l’Universo.

Vicina alla pole position, più o meno in terza fila, troviamo “la macchina guidata da una suora” (tre mesi di fattura). Ora l’etimo di questo luogo comune non è ben chiaro, sappiamo, però, che il saio delle Sorelle potrebbe ostacolare la corretta pressione esercitata dallo scalpiccio sui pedali. Piccolo particolare: se l’auto fosse, addirittura, di colore verde, mbè allora “Peppinièèè, quei mesi diventano sei…”.

Nella parte sinistra della graduatoria, diciamo in zona Champions’ League, troviamo il famigerato “gatto nero” (un anno di maleficio). L’origine è facilmente riscontrabile nella tradizione egizia. Da fiera venerata e idolatrata, il felino ha assunto, nei secoli, connotazioni negative dovute, principalmente, fusa a parte, ad un comportamento schivo e solitario. Che poi, ‘sta cosa che il Micio debba avere nove vite, è un’ingiustizia verso gli altri animali…!

In testa ai più fatali scongiuri ci sono i sette anni di iella che ci accolleremmo se raccogliessimo i cocci sbrecciati di uno “specchio rotto”. La devastante ecpirosi che ne deriverebbe è misurabile dall’attenzione che quotidianamente poniamo nel maneggiare la narcisistica proiezione della nostra immagine. Discettando, sottecchi, la rassegnata fine, scopriamo che gli Antichi Greci solevano identificare gli speculari riflessi con frammenti dell’anima andata in mille pezzi.

La lista sarebbe lunga, opulenta e curiosa, potrei citarvi “il cornetto portafortuna” o “il toccare ferro”, ma preferisco non tediarvi, augurandomi piuttosto che la lettura vi sia stata gradita, ci spero e…incrocio le dita!