Qui la vita a Stipazia finisce e ricomincia una volta a settimana, con l’arrivo della corriera, per chi lo vuole

Se si passa, di sera ma è necessario che le stelle siano accese al massimo del wattaggio poiché manca la luce, lungo la costa delle Roccebelle nella città di Stipazia è facile notare un ragazzo alto con la barba e gli occhi di brace vestito da marinaio che cammina sul margine della scogliera. E chi lo ha visto lo ha anche sentito chiamare un nome, Angela o almeno così si dice. Tutte le sere questo omone passeggia disperato, tant’è che la gente del posto gli ha fatto l’abitudine e ha imparato a considerarlo una delle tante attrazioni del posto. Ve lo descrivo: alto quasi due metri, robusto come un armadio a due porte e direi anche comodo come un divano a due posti volendo, con un barba nera messa lì apposta a coprire un viso di bimbo e due mani che grandi come sono sembrano coperte da guanti ma non lo sono. A tracolla porta un sacco floscio e c’è chi pensa rubi le stelle cadenti. Precisamente passeggia dalla casa del signor Biglio alla casa del signor Scompasso con una precisione da cagna di barboncino in calore che fiuta odore di mastino. La voce del marinaio con la barba poi è così intonata e gentile da persuadere gli abitanti della Stipazia a dargli una mano nella ricerca. Alle porte di ogni casa sono appesi dei fogli bianchi con il nome “Angela” a caratteri cubitali.

E non è difficile che qualcuno tornando di lavoro, la sera, intoni il nome e si guardi attorno; questo però quando o la luna o le stelle danno il loro contributo. Perché? Perché a Stipazia non c’è la corrente elettrica, mi sembra ovvio!

Gli abitanti di Stipazia sono persone normali, come altre. Tra i più noti ci sono il parroco, il medico, il notaio, il farmacista, la peripatetica, la guardia, la maestra e il sindaco.

A qualsiasi ora guardiate, di case se ne contano 380 e di abitanti circa 1200 di cui 200 tra bambini e bambine e il resto sono donne, uomini e anziani.

I bambini la mattina sono a scuola, il pomeriggio fanno i compiti e la sera guardano le stelle. Gli uomini la mattina e il pomeriggio lavorano, la sera chiamano Angela. Gli anziani la mattina, il pomeriggio e a volte la sera diventano peripatetici pure loro. Le donne quando non sono in casa a cuocere frittelle sono dal medico. Il medico è il più bell’uomo di Stipazia, parla bene ed è sempre profumato. Tutte le donne del villaggio lamentano fitte e dolori un po’ dappertutto. A volte pur di non togliere del tempo alle faccende domestiche, durante la pennichella dei mariti, approfittano di una visita domiciliare più accurata del medico; certe si lamentano così tanto dei dolori reumatici che i gemiti echeggiano di casa in casa. Nel suo studio medico ci sono sempre riviste con qualità e difetti in mostra: e le malate sono quasi sempre donne molto giovani. A volte ci trovi anche qualche anziano che entra curvo sulla schiena e, spazientito dell’attesa, esce con le mani in tasca. Spesso il parroco, da malato e da uomo di chiesa: direi più da uomo di chiesa a giudicare dalle riviste requisite.

Un tipo strano è l’intellettuale di Stipazia, il signor Scudo. Due volte a settimana è dal medico per cultura personale. È la malattia più strana che abbia mai sentito. Pur non facendo altro che leggere e scrivere tutto il giorno ha entrambe le mani piene di strani calli, forse più la mano destra.

Vicino la fermata della corriera abita il signor Daccio: soffre di insonnia e di sera a volte ti capita di vederlo passeggiare lungo i campi di fragole dove dalla disperazione ne mangia qualcuna di troppo. A vederlo con gli occhi arrossati dal sonno e le labbra sporche di rosso sembra un vampiro. I vicini, visto che la prudenza non è mai troppa, tengono ben nascoste le figlie femmine e in casa hanno aglio e crocifissi ovunque. La diceria si è allargata così a macchia d’olio che alla fermata della corriera si manifestano scene di panico. La corriera ferma di sera.

Con l’ultima corsa è arrivato a Stipazia in turné un gruppo di cantanti donne. Che sono cantanti lo si vede dai polmoni particolarmente predisposti. La meno carina ne ha due portentosi tenuti stretti tra una scollatura da brivido. E visto che da noi non ci sono alberghi si decide tutti assieme di ospitarle in casa. Già, ma loro sono in cinque e noi abbiamo più di trecento case! Lo scemo del villaggio, Ugo, propone di giocarcele a pasta e fagioli. Chiamatelo scemo! Viene decretata così la buona causa della proposta e per il bene di quelle cinque donne infreddolite e stanche si dà inizio alla gara.

Anche i più anziani non vogliono astenersi dal dimostrare di avere un cuore.

In un pentolone alcune donne preparano cento chili di fagioli speziati con aglio e peperoncino e a parte altri cento chili di pasta.

Persino il parroco, visto lo spazio che ha a disposizione nella sua parrocchia, si offre di parteciparvi.

La gara ha inizio alla mezzanotte. Imbandita una tavolata senza eguali. A capo tavola il sindaco Egidio. Arbitro il signor notaio. Alla fucilata della partenza c’è già un partecipante in meno.

Verso l’una tuonano i primi rutti e le prime scoregge di massa. I primi cadono. L’aria per via del caldo umido e delle flatulenze è irrespirabile. Altri cadono. Le ballerine appostate su di un carro con le gambe a penzoloni, scoprono le cosce e si fanno fresco con le sottane. In molti si rialzano e tornano a battersi. Lo scemo del villaggio è in vantaggio. Il parroco si batte disperato e guardando il cielo invoca aiuto. Le cantanti restano con addosso solo i corpetti e le sottane. Il parroco sembra invocare qualcuno più potente con bestemmie latine. Molti si ritirano. Le cantanti improvvisano un balletto giusto per rallegrare l’atmosfera: le sottane si alzano mostrando i pizzi e i merletti. La più giovane intona un canto dolce gonfiando d’aria i polmoni e quasi facendoli scoppiare. Al parroco saltano ad uno ad uno i bottoni dell’abito. Lo scemo del villaggio chiede la decima portata e del pane. La cantante più carina, al coro, con un gesto sensuale delll’indice si carezza le labbra sino al seno, strizza gli occhi e manda bacetti. Degli anziani corrono a casa con le mani in tasca. C’è chi si strozza. Richieste di biancheria intima pulita.

Verso le tre alla tavolata si contano tre persone: il sindaco, Ugo lo scemo e il parroco. Per stuzzicare l’appetito viene distribuito del provolone piccante e della mortadella. Le cantanti dormono sul carro e il resto degli spettatori dove può. Il più feroce flatulento di Stipazia, carico di fagioli, viene fatto sedere accanto all’arbitro per evitare che si addormenti. Alle tre e quarantacinque sono in due: lo scemo e il parroco. Alle quattro si sente in lontananza una voce. È l’omone. Ha una voce tenorile e intona una canzone che ritornella col nome Angela. Chi dorme si sveglia. Sembra un canto d’amore, una serenata. Le parole sono bellissime. Tutti guardano verso il buio a puntini delle stelle. A Ugo lo scemo vengono le lacrime agli occhi. Le donne portano le mani al viso dalla meraviglia, gli uomini arrossiscono dalla gelosia di un amore così straziante. Agli anziani si rompe la crosta che tiene il cuore. Le cantanti piangono più di tutti. I bambini corrono verso la voce ma la voce è lei che si avvicina. Il parroco crede sia la voce di un angelo venuto a punirlo per aver bramato la vittoria, e si inginocchia col rosario in mano.

Il bambino più sveglio si accorge che una stella brilla più di tutte. Un acuto sofferto invoca Angela e la stella quasi è come il sole. Ora tutti corrono verso la scogliera. Il parroco col rosario in una mano e la ciotola di fagioli nell’altra. Ugo resta seduto, piange e carezza con le dita le vene del tavolo. La cantante più giovane resta vicino a Ugo, gli siede vicino e lacrime agli occhi cerca di incidere con le unghie un nome sul legno. E intorno al nome ci disegna un cuore prima che le unghie si spezzino e la memoria venga meno. Il legno ha il nome di Ugo. L’amore ha rapito il nome a Ugo. Ugo se smette di piangere ha gli occhi chiari, la cantante lo sa. I capelli si dovrebbe pettinarli. E quel viso imbronciato che lo fa scemo, magari si dovrebbe truccarlo con un sorriso. Adesso due mani si incrociano, si prendono tra le dita e stringono.

Gli stipaziani sono quasi vicini alla voce, corrono più che possono. Eccoli lì. L’omone vestito da marinaio è sull’ultima lingua di scogliera: ha le braccia aperte e la testa puntata al cielo verso la stella più grande e più luminosa. La voce fa danzare quel nome Angela sino a ficcarlo nei cunicoli del cuore. In una mano ha il sacco slacciato. Le prime stelle si lanciano cadenti sul mare. Un vento caldo alza i capelli lunghi delle donne, sfiora le gonne di lana grezza, alza le gonne di stoffa delle cantanti.

Qualcuno grida: – ci ruba le stelle!

Il sindaco pretende un permesso scritto o l’atto notarile. L’intellettuale del paese quando glielo chiedono non sa dire come può finire poiché nei suoi libri non ha mai letto nulla di simile. Il parroco grida a Lucifero ma ripensando ai fagioli, zittisce, temendo l’ira di chi conosce anche i suoi pensieri.

L’omone ha le lacrime agli occhi e con quel nome a spasso sull’eco, apre il sacco. Il sindaco insiste col permesso e la guardia avanza minacciosa con le manette ma il bambino più sveglio gli fa lo sgambetto. Una cantante, la più alta di tutte, si avvicina all’omone vestito da marinaio; in mano ha un fazzoletto: allunga la mano. Il marinaio si gira e la guarda.

  • Tu chi sei?
  • Ti ho portato un fazzoletto.
  • Sei gentile… ma non hai paura di me?
  • Perché dovrei: hai una voce bellissima.

Prende il fazzoletto.

  • Sai, anch’io mi chiamo Angela come la tua stella.
  • Ciao Angela, io mi chiamo Ernesto.
  • Cosa fai con quel sacco?
  • Dentro c’è la terra che viaggiando da marinaio in tutto il mondo ho raccolto: un po’ da ogni isola in cui sono stato.
  • Ma perché sei così triste?
  • Sono stanco di viaggiare: vorrei una casa e una famiglia.
  • Chi è l’Angela di cui canti: una stella?
  • È il più bel nome che ho trovato.
  • Sul serio trovi che Angela sia un bel nome?
  • È il nome più bello che abbia mai sentito.
  • Visto!
  • Sei la prima Angela che incontro. E ora credo di potermi liberare dei miei viaggi una volta per tutte.
  • Perché buttarla via: con quella terra possiamo piantarci dei fiori…insieme se vuoi!
  • Lo voglio.
  • Ma non potrò mai essere più bella delle tue stelle.
  • Tutte le cose del mondo sono belle se solo lo si vuole.

E decidono di vivere tra le stelle come due stelle, non lamentandosi mai di qualche nuvola grigia o di un po’ di pioggia: perché nella vita c’è posto per tutto.

Il bambino sveglio cerca di ficcare quel che gli pare un sogno tra gli altri sogni. Gli stipaziani se vanno a letto. Il parroco è curioso di sapere che faccia ha il suo Cristo di legno in parrocchia: magari è arrabbiato! L’intellettuale per cultura personale decide di provare anche l’amore.

Ugo e la cantante sono sdraiati sul grande tavolo di legno, mano nella mano, a guardare le stelle e a volte a guardarsi negli occhi e spesso a scambiarsi baci.

Anch’io me ne torno a casa e lungo la strada incontro una delle cantanti. C’è una pozzanghera, lei ha i tacchi così la aiuto: mi tocca prenderla in braccio. È leggera, ha un viso dolce e indossa un buon odore. La pozzanghera ormai è schivata ma non la lascio, mi chiede dove andiamo e io le rispondo che andiamo a casa. È tardi. E c’è tutta la vita per parlare di noi.

Qui la vita a Stipazia finisce e ricomincia una volta a settimana, con l’arrivo della corriera, per chi lo vuole.

FINE