in diverse situazioni gli animali, ai quali riserviamo sofferenze ed atrocità inaudite, possiedono una sensibilità superiore a quella di molti uomini

Premo il cappello di lana sulla testa per coprirmi gran parte del viso e le orecchie. Restano di fuori gli occhi, stretti, allungati, sonnacchiosi. Guardo a destra, allungo lo sguardo nella più remota lontananza fin dove la strada curvandosi si tuffa gradualmente verso il la ripida discesa. Neanche un’anima viva. Solo foglie secche, sollevate dal vento, planano, accartocciate ed intirizzite, sulla compiacente pista di atterraggio. Estesissima, tutta dipinta di bianco dai mille pennelli del cielo.

Giro lo sguardo a sinistra, dove la strada, dopo un percorso leggermente pianeggiante, si inerpica verso l’alto in direzione dei sentieri di montagna, calpestati dagli alpinisti. Una busta di plastica, bianca, gonfia come il polmone di un subacqueo in procinto di raggiungere i cento metri di profondità, ballonzola allegramente scalciata da un vento interessato a partecipare, senza essere stato conteggiato dall’arbitro, ad una improvvisata partita di calcio.

Il mio sguardo di unico spettatore si inebria nell’assistere alla casereccia competizione sportiva, in cui non circolano montagne di denaro, anche se si è in alta quota dove i soldi ne volano a palate, e tifa perché arrivi nella porta avversaria. L’improvvisato pallone batte contro la vetrina di un negozio di articoli sportivi illuminato a giorno da una gigantesca insegna baluginante di colori, scansa un palo segnaletico, dribbla una vettura, rimbalza contro un bidone della spazzatura, riprende la rincorsa, poi, ansante finisce sotto una lussuosissimo fuoristrada che con supponenza non lo degna di uno sguardo. Mi mordo le labbra per il dispiacere.

Certamente sembro un fantasma, a quest’ora della notte, tutto solo. Nessuno va in giro, mentre la neve allegramente con vaporosi fiocchi, grandi come prugne, si accinge a riposarsi al suolo, dopo il periglioso viaggio che l’ha portata a girovagare raminga di qua e di là e poi, sballottata dalle ultime folate di vento, a precipitare in picchiata dalla grande grande nuvola che più volte in giornata, veleggiando sulle cime delle Alpi, si era lasciata perforare dalle guglie delle montagne.

La gente, quella che lavora, si attarda intorno alla stufa, ai caminetti, nei quali stancamente bruciano i ceppi ormai ridotti all’osso o da tempo raggomitolata nei letti coperti da caldi piumoni riempiti di lana sintetica, sogna tutto quello che la realtà non gli ha mai concesso.  I ricchi, barricati nelle loro lussuose residenze, stravaccati o ciondolanti in ristoranti nei quali la luminosità vince quella solare, se la spassano allegramente, fiumi di champagne, bevute a gogò, battute lascive, risate, canne, dopo aver deliziato la bocca con le pietanze più raffinate che gli chef hanno elaborato per loro.

Che giornata di lavoro oggi! Tantissimi gli ospiti. Molti, in verità, gentili ed affettuosi. Alcuni generosi con il personale. Gli spocchiosi, gli insolenti, gli arroganti, quelli che non mostrano alcun rispetto per chi lavora pesantemente ed onestamente, anzi si mostrano volutamente sprezzanti, non mancano mai all’appello. Neanche oggi. Ci si fa il callo. Per educazione non li si prende in considerazione, li si snobba, si nutre persino commiserazione per loro. Gente veramente povera. Dentro. Anche se le carte di credito scintillano di denaro. Fuori.

Fino a poco fa mi sentivo addosso tutti gli odori della cucina. Le fragranze sprigionate dagli antipasti, dagli intingoli e dai sughi del menù del giorno. Avvertivo di esserne impregnato fino alle ossa. Gli aromi delle spezie, usate davanti ai fornelli da prima che le campane della chiesa di Cortina d’Ampezzo lanciassero rintocchi, bighellonanti allegramente per le più remote valli, hanno definitivamente abbandonato le mie narici, assalite dalla fredda e secca aria che arriva direttamente dalle pendici innevate. La calda doccia, lunga, compiacente, fatta prima di uscire, ha cancellato ogni traccia di odore dell’ambiente di lavoro.

Ora gli scarponi, passo dopo passo, affondano, ed il crepitio della neve divenuta ghiaccio mi tiene ritmicamente compagnia assieme al fischio del vento gelido che mi fa intirizzire nonostante io sia ben coperto con mutandoni e canottiera di lana, maglione e pantaloni pesanti, piumone e cappotto. Solo Le mani sono nude, ma il tepore delle tasche le tiene calde.

Le insegne dei negozi e dei ristoranti, assieme alle calde luci dei lampioni, avvolti da un’aureola brumosa, rischiarano la strada, divenuta un uniforme tappeto di bianco immacolato che ha eliminato completamente le forme del selciato e del marciapiede sottostanti. Alzo la testa, con un brusco movimento ne scrollo gli ultimi fiocchi depositati, ed i miei occhi vengono fagocitati da tanti puntini luminosi che impercettibilmente vanno a zonzo nella remotissima oscurità di uno squarcio di cielo apertosi da poco.

Non vedo la luna, forse è nascosta dietro le nuvole oppure non ha avuto voglia di farsi la consueta passeggiata. Penso, proiettando: “Forse anche lei si sarà buscata una bella influenza.” Poi vaneggio: “Non essendo in giro da un po’ di giorni avrà deciso di fare la settimana bianca, per interrompere la routine che da tempi immemorabili la porta a compiere sempre la stessa orbita.”

Mi restano ancora cinquecento metri da percorrere, prima di inquadrare, dall’angolo della via dove sorge il mio ristorante, la palazzina azzurra dai tetti spioventi sotto i quali è acquattata la finestra che mi inonda di luce non appena il sole, scavalcando le montagne di levante, mi augura il buon giorno.

Procedo tranquillamente con i miei pensieri. Ora, le persone importanti della mia vita, affondate in letti accoglienti e soffici, staranno sognando. Ogni tanto un colpo di tosse fa irruzione nel silenzio più pesto, lanciando nell’aria sbuffi di aria calda, che si materializzano in minute nuvole di vapore.

Con il tempo finora impiegato, in altre occasioni avrei già raggiunto la mia abitazione. Quella attuale. Si può dire, però, che mi trascino come un senzatetto che non ha una meta da raggiungere. Non c’è nessuno ad attenermi, ad abbracciarmi, all’arrivo.  Le impronte degli struscianti scarponi nella neve non sono nette, ma presentano una certa continuità. Mi fermo un attimo a soffiarmi il naso che gocciola abbondantemente. Nessuno viene disturbato dal rumore baritonale simile a quello emesso da una tromba scordata che i miei mantici interni erogano con forza.

Le imposte di tutte le abitazioni sono spente. Solo da qualcuna filtra il lucore di una luce accesa. Di converso i lampioni della via principale e di quelle trasversali, dal caldo colore che contrasta con quello freddo del biancore della neve, presi di mira da una miriade di farfalline nere, illuminano ampiamente i marciapiedi. Forse provano nausea per la vuota esistenza. Congiuntamente, i fari di rare autovetture fendono con lancinanti fasci luminosi le profonde carreggiate nerastre, crepitanti e bercianti.

Mentre ripongo il fazzoletto nella tasca, mi sento strusciare da qualcosa che all’improvviso ha fatto irruzione senza che me ne accorgessi. Chino il capo, una cane di grande stazza mi si è accostato. Sobbalzo per lo spavento. Prendo, però, subito il controllo emotivo della situazione. Né potrei fare diversamente. La fuga non mi converrebbe. In men che si dica mi si piomberebbe addosso e sarebbe finita per me. In un batter d’occhio, quindi, controllo lo stato dei muscoli del corpo. Cuoio capelluto, fronte, guance, braccia avambracci, pancia, natiche, gambe, piedi, alluci. Sono già quasi completamente rilassato. Non produco quasi nessuna molecola di adrenalina che potrebbe allarmare l’animale. Per completare scrupolosamente l’operazione di rilassamento, chiudo per qualche attimo gli occhi e faccio sfilare in sequenza immagini in successione dal rosso, all’arancione, al giallo, al verde, al blu, all’indaco, al viola.

Prendo coraggio. Lo guardo negli occhi. Anche lui sprofonda nei miei. Un cane. Un uomo. Soli nella notte.  Forse anche lui va alla ricerca di qualcuno che gli voglia bene, che lo accarezzi, mi dico. Azzardo. Tiro dolcemente la mano dalla tasca che scivola delicatamente sul suo capo. Dal muso alle orecchie. Poi di nuovo, dal muso alle orecchie. Ancora, più volte. Lo guardo, gli piace, chiude gli occhi ed il capo, roteando e stirando il collo, si muove delicatamente ora in una direzione, ora nell’altra. Mi fermo, la bestia riapre gli occhi.   I nostri sguardi si agglutinano di nuovo. La coda che era stata ferma, inizia a muoversi sempre più speditamente. È soffice il pelo. È caldo. La mano, la mano che accarezza, è più calda di quella che se ne sta rintanata nella tasca. Candida la livrea. Solo le orecchie e la coda sfoggiano uno smagliante color nocciola.

All’improvviso mi salta sul petto, arretro, le sue zampe toccano di nuovo terra, e mentre tento di riaccarezzarlo, la mia mano si trova nella sua bocca, per uno scatto repentino della sua testa, le cui fauci si sono spalancate e proiettate in avanti.

Sento i suoi denti che la stringono, i canini che pungono. Sensazioni nuove, inusitate. Nonostante tutto, riesco a mantenere la calma. L’ambiente è caldo, umido, alquanto vischioso. Soffice. Molto confortevole. Il dorso della lingua canina lecca il palmo della mia mano imprigionata, che non evidenzia, in fondo, segni di nervosismo.

La mano sinistra, che finora se ne era rimasta al calduccio della tasca, si fa coraggio. Cautamente esce allo scoperto in aiuto della compagna, prendendo ad accarezzare la testa del cagnone. Si mostra compiaciuto, l’animale. Forse, ha raggiunto l’obiettivo che intendeva conseguire. Valli a capire gli animali. Se già è difficile, se non impossibile, capire gli uomini, figuriamoci gli animali. O forse è l’inverso.

Gli affibbio su due piedi un nome, “King”, perché possiede un aspetto, un comportamento regale, atteggiamenti signorili. Non ha nulla, però, di quei re che guardavano dall’alto in basso i loro sudditi. Anzi, lo sento, lui non mi considera un suddito, un servo che deve baciargli la mano. Per converso, è lui che in fondo mi sta baciando la mano, persino leccando ma senza servilismo, come fanno tanti umani che forse possiedono poco delle vere virtù proprie di quelli che mettendocela tutta riescono ad emanciparsi diventando uomini a tutto tondo.

Si lascia accarezzare il mio cagnone, sì lo sento mio, ma non molla la presa. Eppure tento delicatamente di estrarre la mano, sperando di coglierlo di sorpresa. Un fallimento dopo l’altro, mentre la mano continua pacificamente a crogiolarsi nel nuovo ambiente.

Non so proprio che cosa fare. Non posso stare delle ore in questa condizione, con la mano imprigionata ed il rischio che mi venga mozzata di tronco, in attesa che sopraggiunga qualcuno e mi soccorra. E se anche qualcuno sopravvenisse potrebbe succedere che il cane si impaurisca, e ne venisse fuori l’animalità che gli uomini hanno mostrato per efferatezza in alcuni nodi cruciali nel corso della loro lunga storia.

Ambedue esibiamo una calma sovrana, ma non posso rimanere per tutta la notta con la mano nella bocca di King. Sono stanco, spossato per la fatica odierna e vorrei ritornare a casa. Forse stasera non troverei ad attendermi neppure il maresciallo. Si è fatto tardi. Ritento ancora, inutilmente, ma non entro in agitazione, il movimento della coda e la lucentezza degli occhi del mio amico animale mi procurano un’inimmaginabile serenità.

Riprendo a camminare, King mi segue. I miei scarponi lasciano impronte giganti nella neve. Le zampe, invece, fessurano appena il soffice manto creando dei delicati canali. Mi affiora un sorriso, amaro, sulle labbra, pensando alle grandi impronte che l’uomo lascia sul Pianeta verde-azzurro e rosso di sera ed a quelle minuscole stampigliate da altri esseri viventi.

È un po’ scomodo camminare con una mano imboccata nel muso di un cane, ma non ho altra scelta. Procedo lentamente. Mi sembra che il mio braccio si sia trasformato in un guinzaglio per cani. Non avrei mai, neanche lontanamente, immaginato che un giorno a l’altro mi sarei trovato in una simile vicissitudine. Comunque, nonostante tutto la mano è ancora viva, anzi pimpante, data la temperatura esterna di parecchi gradi sotto lo zero.

All’improvviso mi balena un’idea. Nella tasca destra del giubbone di pelle dal colore camoscio dovrei avere qualche tarallo. Avanzi di quelli portati dal mio viaggio nel sud. Che ogni tanto mi capita di sgranocchiare. Taralli integrali, lievitati con pasta madre, conditi con olio evo e semi di finocchio. A me piacciono da morire, chissà se anche al cane risulterebbero graditi, mi chiedo. Un’esca per lui, una ghiotta occasione per liberare l’appendice del mio arto dal caldo carcere in cui si trova imprigionata, senza alcun processo, proprio come nei paesi dove la giustizia è al servizio dell’esecutivo.

Provo. La mano sinistra si rende disponibile a tentare l’avventura. Esce dalla falda di lana, passa davanti alla pancia e…accidenti! Non è proprio semplice, l’iniziativa. Ci riprova ancora. Cilecca! Il cane guarda con meraviglia ed una certa apprensione gli inconsulti movimenti. Non gli era mai capitato di assistere ad una tale operazione. Avrà pensato. Gli uomini certe volte sono proprio strani. Neppure io, per tutta la vita, in verità, mi ero trovato nell’emergenza di compiere un simile gesto.

La mia tenacia mi porta a riprovare. Questa volta, finalmente imbocco l’apertura della tasca e raggiungo la busta di cellofane contenente i fatidici taralli scaldati. Un sospiro di sollievo, temevo che non ci sarei mai riuscito. Faccio per estrarli, ma accidenti! Il prezioso malloppo finisce per terra. Non mi scompongo, mi piego ed eccomi, finalmente trionfante, con la busta nella mano gongolante.

In men che si dica, con mio grande sollievo, l’amico King spalanca la bocca ed addenta la leccornia che ha il sapore di un forno alimentato da energia solare. La mano è libera, finalmente. Gocciola saliva. Prendo un fazzolettino dalla tasca e provvedo ad asciugarla. La guardo, ne osservo il dorso, il palmo, controllo tutte le dita. Neppure un graffio. Anzi, bastonata da una folata di gelido vento, sembra proprio dispiaciuta.

Intanto, King senza cerimonie infila il muso nella busta e si serve da solo. Uno dopo l’altro i taralli finiscono nella sua bocca. Non avrei mai pensato che avrebbero trovare un alto gradimento non solo da parte di umani ma anche di un cane. Evidentemente, pensa con compiacimento, ottima la fattura, buone le qualità organolettiche, salutari gli ingredienti.

Ora sento meno freddo di prima, e la stanchezza ha preso altre vie, allontanandosi furtivamente da me, inerpicandosi con scarponi muniti di ramponi per i fianchi ghiacciati dei dirupi che hanno assistito da un leggiadro palco naturale ad un insolito spettacolo dato da attori improvvisati su una strada solitaria di una cittadina sfavillante di luci, denaro, lusso e sofferenze umane.

Finalmente lo slavato portoncino di casa è ad uno schioppo. Il suo antico blu cobalto, intirizzito per le inclementi raffiche di vento, si è illanguidito in un uno spento celeste. Un grande sospiro di sollievo. Alzo la testa, la luce dorme placidamente, il proprietario se non è ancora precipitato nel sonno, certamente è sul ciglio della strada onirica. Tento di aprire, incontro una certa resistenza, spingo la porta con una certa energia, finalmente cede.

Uno dopo l’altro salgo i venti gradini che mi separano dall’ingresso di casa, aiutandomi con la mano sinistra al passamano di legno. E’ alquanto faticoso salire, per la battuta dei gradini. King si guarda intorno, annusa l’aria, volgendo il capo in tutte le direzione. Si sofferma momentaneamente su un gradino che emana effluvi allettanti, poi riprende a seguirmi.

Infilo con una certa fatica la chiave nella porta, un, due, tre quattro scatti, finalmente l’uscio si apre. Accendo la luce, l’aria tiepida mi viene incontro, gli odori della cena consumata dal proprietario, dilatano le mie radici, il cane si inebria.

Senza che io melo aspetti, le fauci si aprono. Non avrò ora bisogno dell’aiuto del maresciallo. Il cane arretra, mi guarda come se sorridesse, la coda freneticamente agita la fredda aria del pianerottolo, all’improvviso, senza che io melo attendessi, mi salta addosso, lo accarezzo. Appoggia la testa sulla mia spalla e rimane per alcuni attimi intimamente legato al mio corpo. Sento il suo alito, il respiro è ansante, la lingua mi lecca il viso. Ritorna sulle quattro zampe, arretra definitivamente, il turbinio della coda dà vita ad un mulinello incontinente. Mogio mogio, con la testa china, scodinzolante, il mio amico si allontana.

Non mi è più capitato di vederlo. Talvolta, evocando mentalmente l’episodio, mi sembra di averlo sognato. In realtà, si è trattato di un’esperienza, incredibile ma veramente vissuta. Più volte mi sono chiesto perché King si sia comportato in quel modo. Sarei propenso a ritenere che in diverse situazioni gli animali, ai quali riserviamo sofferenze ed atrocità inaudite, possiedono una sensibilità superiore a quella di molti uomini.


Fontehttps://pxhere.com/it/photo/7797
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Percorso scolastico. Scuola media. Liceo classico. Laurea in storia e filosofia. I primi anni furono difficili perché la mia lingua madre era il dialetto. Poi, pian piano imparai ad avere dimestichezza con l’italiano. Che ho insegnato per quarant’anni. Con passione. Facendo comprendere ai mieli alunni l’importanza del conoscere bene la propria lingua. “Per capire e difendersi”, come diceva don Milani. Attività sociali. Frequenza sociale attiva nella parrocchia. Servizio civile in una bibliotechina di quartiere, in un ospedale psichiatrico, in Germania ed in Africa, nel Burundi, per costruire una scuola. Professione. Ora in pensione, per anni docente di lettere in una scuola media. Tra le mille iniziative mi vengono in mente: Le attività teatrali. L’insegnamento della dizione. La realizzazione di giardini nell’ambito della scuola. Murales tendine dipinte e piante ornamentali in classe. L’applicazione di targhette esplicative a tutti gli alberi dei giardini pubblici della stazione di Barletta. Escursioni nel territorio, un giorno alla settimana. Produzione di compostaggio, con rifiuti organici portati dagli alunni. Uso massivo delle mappe concettuali. Valutazione dei docenti della classe da parte di alunni e genitori. Denuncia alla procura della repubblica per due presidi, inclini ad una gestione privatistica della scuola. Passioni: fotografia, pesca subacquea, nuotate chilometriche, trekking, zappettare, cogliere fichi e distribuirli agli amici, tinteggiare, armeggiare con la cazzuola, giocherellare con i cavi elettrici, coltivare le amicizie, dilettarmi con la penna, partecipare alle iniziative del Movimento 5 stelle. Coniugato. Mia moglie, Angela, mi attribuisce mille difetti. Forse ha ragione. Aspiro ad una vita sinceramente più etica.