donne kamikaze

È stata additata da tutto il mondo come la prima donna Kamikaze ad essersi fatta esplodere nel cuore dell’Europa, salvo poi dover fare dietro front, perché, secondo le ultime dichiarazioni degli inquirenti, non è lei, Hasna Aitboulahcen, la responsabile dell’esplosione del covo di Saint Denis, dove si nascondevano gli attentatori degli attacchi di Parigi.

Di certo Hasna ha avuto il suo momento di gloria, è diventata il simbolo della Jihad al femminile e delle donne kamikaze. Andando indietro nel tempo, Sanaa Mehaidli fu la prima a farsi esplodere: era il 1985 e militava nel Syrian Social Nationalist Party, il partito filo-siriano che combatteva contro l’occupazione in Israele. A un posto di blocco in Libano si fece saltare in aria con la sua auto riempita di esplosivo.

Il suo esempio è stato seguito dalle donne curde del Pkk, dalle Tamil dello Sri Linka, dalle fedayn palestinesi, fino alle cecene, alle irakene e alle bambine suicide in Nigeria. Le motivazioni che spingono queste donne a uccidere sono diverse, dalla vendetta personale nel caso delle cecene che agivano dopo aver visto uccidere brutalmente il marito dai russi – perciò chiamate vedove nere – alla volontà di affermare la propria dignità e parità per le jihadiste islamiche o perché drogate e costrette come le bambine della Nigeria.

Sicuramente le donne suscitano meno sospetti, soprattutto se sono giovani o addirittura bambine, possono infiltrarsi più facilmente senza subire controlli, colpiscono l’opinione pubblica, amplificando il significato e la risonanza del gesto in sé. Per questo vengono scelte, anzi la scelta cade su donne fragili, facilmente influenzabili. “Shahida” chiamò nel 2002 Arafat le martiri donne, shahida cioè testimoni al femminile della verità della fede, perché morire come martiri in nome di Allah significa continuare a vivere, secondo l’interpretazione del Corano.

Finora lo Stato Islamico non ha mai utilizzato le donne come kamikaze, ma solo come cecchini o per ruoli logistici e di intelligence, oltre che per reclutare possibili jihadiste in Occidente; questo perché farle emergere come martiri e riconoscere davanti al mondo il loro gesto eroico significherebbe accettare la loro dignità di individui non inferiori agli uomini, il loro ruolo paritario, in contrapposizione con la legge del Corano per cui la donna è “uguale all’uomo nella fede, ma non nell’ordine mondano”. Proprio per questo morire da martire per una musulmana è un gesto forte, una forma di protesta, è l’affermazione della propria dignità di essere al pari dell’uomo, è la possibilità di uscire dal proprio stato di minorità. Tanti sono i blog femminili sui siti jihadisti che offrono suggerimenti alle donne per prepararsi al martirio, proponendo come modello le biografie delle donne kamikaze più famose.

“Io non vedo l’ora di andare a morire per Allah” – sono state le parole di Maria Giulia, alias Fatima, la ragazza campana, convertitasi alla Jihad. Ora è in Siria.

Anche Hasna aveva dichiarato di voler morire per Allah sul suo account Facebook. Non ci è riuscita, ma ha sicuramente funto da esca, facendosi sbriciolare in mille pezzi – il suo ruolo fa pensare ad un cambiamento tattico e strategico dello Stato Islamico o comunque dovuto all’occidentalizzazione dei combattenti.

Sfugge, in realtà, a queste donne che scegliere o accettare di diventare shahida significa sottostare a un ricatto, mantenere un ruolo subalterno in una comunità maschilista e procrastinare un vortice di violenza che non riguarda più solo il mondo islamico, ma sta coinvolgendo anche tutto l’Occidente. Sicuramente sarà una strada difficile operare una rivoluzione culturale e ideologica, ma sono loro, le donne, le uniche che potranno lavorare ai fianchi i propri uomini stabilendo dei limiti alle violenze e affermando i propri diritti. Non si può rispondere alla violenza con la violenza. Proprio loro, le donne, che sono state create per dare la vita non possono riprogrammarsi per togliere la vita.