La novità che Dante introduce con la seconda cantica della Divina Commedia non consiste solo nell’invenzione del Purgatorio – che è il titolo di un fortunato libro di Le Goff – ma anche nell’aver ideato un vero e proprio Antipurgatorio abitato dall’anime dei “pentiti dell’ultim’ora”. Sono questi i morti per forza, cioè di morte violenta, uccisi nel fiore della gioventù, che si sono pentiti e salvati nel breve e ultimo momento della loro vita.

Uno di loro, Buonconte, racconta al viaggiatore lo strazio del suo corpo segnato dalla battaglia di Campaldino e ora preda del torrente Archiano:

«Lo corpo mio gelato in su la foce

trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse

ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce

ch’i’ fe’ di me quando ‘l dolor mi vinse» (Purgatorio V, vv. 124-6).

Buonconte, incrociando le braccia, fa di sé una croce, offrendosi così a Dio. Come non vedere in questo gesto lo stesso Cristo crocifisso e l’eco delle sue parole rivolte al Padre: «Padre nelle tue mani consegno il mio spirito»? Ma non è questa l’unica suggestione evangelica presente nel quinto canto del Purgatorio. Infatti, subito dopo il racconto di Buonconte, la telecamera del Dante regista si concentra in primo piano su un’altra anima:

«“Deh, quando tu sarai tornato al mondo

E riposato de la lunga via”,

seguitò ‘l terzo spirito al secondo,

“ricorditi di me, che son la Pia”» (Purgatorio V, vv. 130-6).

Con estrema discrezione, Pia chiede preghiere per affrettare la sua corsa verso il Paradiso e, nel fare ciò, si appella esclusivamente alla generosità di chi l’ascolta, usando le stesse parole del ladrone crocifisso accanto a Cristo: «Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno” (Lc 23,42).

Dante, da esperto conoscitore di testi biblici e patristici, avrebbe potuto presentare il mistero della Redenzione ricorrendo a grandi e alti discorsi teologici; ma ha preferito offrire al lettore episodi di vita concreti nei quali il Vangelo della Croce sia più manifesto, chiaro e comprensibile che sulla carta. È, infatti, evidente il senso di tale annuncio: in Cristo, Dio è sceso dai cieli per condividere la nostra stessa umanità, «fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8).

In quegli stessi anni, un altro genio della cultura occidentale preferiva non ignorare la via dell’umanità e della carne (dove “carne” sta per sarx, secondo l’evangelista Giovanni: «Il Verbo si è fatto carne – sarx – e venne ad abitare in mezzo a noi» Gv 1,14), anche quando si trattava di Dio. È Giotto che, nel dipingere la scena della crocifissione nella Cappella degli Scrovegni, non nasconde l’umanità del Cristo. Costui infatti «non ha nel patimento l’unica ed esclusiva espressione del volto, ma sembra anzi dimostrare come si possa essere triumphans nel patire, forse addirittura più trionfante. Cristo è patiens, soffre, ma nello stesso tempo conserva un’assoluta maestà, la consapevolezza di come in lui ci sia più Dio dell’uomo, perché è Dio fatto uomo» (Vittorio Sgarbi).

Come Dante e Giotto, possiamo anche noi riconoscere il Cristo nell’umanità sofferente, che non Lo nasconde ma, al contrario, Lo rivela come sulla croce. Sia questa la nostra Pasqua!