Nelle comunità cristiane il mese di ottobre da anni è dedicato a una profonda riflessione intorno al tema della “missione”. Ma quale missione coltivare tra brama di proselitismi, mai assopita, e immagini sdolcinate di bambini africani miranti a catalizzare la commiserazione di tanti?

Sfogliando le pagine dell’evangelista Matteo, in 9,35-10,25 ci imbattiamo nei contenuti e nelle situazioni che sono all’origine della missione; con precisione in 9,36 troviamo: “Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stan­che e sfinite come pecore che non hanno pastore...”. È la “compassione” per questa miseria l’anima dell’agire di una comunità: non è possibile vedere la miseria senza commuoversi.

La compassione è un’esperienza di fraternità offerta a ciascuno in un contesto malato di utilitarismo, là dove non c’è più tempo per fermarsi, guardare l’altro, accoglierlo e ascoltarlo, per debellare quello spazio che rinchiude progressivamente l’individuo nella sua solitudine prima che giunga la fine. Si tratta di scendere nelle profondità del suo spazio vitale, senza “annegare”, per condividerne la “passione” (cum passio).

Il contenuto della missione è compiere l’opera di terapia verso chi ha smarrito il sapore della vita (cfr. Mt 10,1): questo significa che c’è chi opera e fa del male. Il discorso si fa più chiaro: occorre restituire quella capacità di gustare la graziosità della vita e questo può avvenire attraverso l’azione profetica dell’annuncio e della denuncia.

La missione, attraverso l’onestà di fronte al reale, la fedeltà davanti al reale è un annuncio di speranza; questo comporta lo smascheramento di ogni “idolatria”: la buona notizia per i poveri diviene allora “cattiva notizia” per coloro che fabbricano i poveri perché l’idolo non vede e non sente, è cieco e sordo; a lui non arriva il grido di aiuto di chi è stanco e sfinito come pecore che non hanno pastore;  il grido non arriva perché chi è chiamato a decidere, per il ruolo che ricopre, decide di non decidere dando così, infedele agli appelli, campo libero allo scorrazzare di chi, sulle lacrime altrui, tenta di soddisfare la propria fame di gloria.

Al missionario, con indignazione, quale sentimento forte che guida la restaurazione delle persone, il compito di “averne compassione” e, demolendo il mito dell’insolenza, cominciare a tracciare un nuovo corso, mettendosi in cammino per strada senza bisaccia e senza sicurezze a fianco di chi, tradito, cerca, stanco e affaticato, un nuovo futuro: annunzio talmente paradossale che, a volte, si fa fatica a prendere in considerazione; ma sarà proprio la nostalgia di Dio, ancora non assopita, a guidare la ricostruzione.

 Elia Ercolino