La strage di Charlie Hebdo è stata poco più di un mese fa. Poi c’è stata la vicenda di Greta e Vanessa, infine il pilota giordano arso vivo dall’Isis. Questi fatti gravi di per sé, uniti al modo sensazionalistico con cui sono stati trattati dalla stampa, hanno portato a una diffusa islamofobia, ossia a una serpeggiante paura dei musulmani. Un esempio? Secondo gli italiani, i musulmani sarebbero il 20% della popolazione totale del nostro Paese, invece sono solo il 3,7%. Consapevoli che ciò che argina la paura è la conoscenza, abbiamo pensato di parlare di Islam con chi se ne intende. Paolo Branca è islamista e docente di arabo all’Università Cattolica di Milano. Ha scritto libri come “Introduzione all’Islam”, “Guerra e pace nel Corano”, “Moschee inquiete” e si occupa di Islam e dialogo interreligioso da circa 30 anni. È stato così gentile da rispondere a qualche nostra domanda.

Professor Branca, partiamo con il chiarire una questione: lo scontro fra le diverse componenti dell’Islam, a cui assistiamo oggi in Medioriente, è uno scontro sul modo di porsi del mondo arabo nei confronti dell’Occidente, la modernità, la laicità, o riguarda motivazioni tutte interne al mondo islamico in cui l’Occidente rientra indirettamente?

Entrambe le cose. Da un lato permangono e si irrobustiscono mai sanate opposizioni fra etnie e sette, dall’altro l’Islam non ha ancora trovato una via equilibrata per entrare nella modernità. Tutte le tecnologie e molti stili di vita lo hanno pervaso fin dai tempi del colonialismo, ma accostandosi e non sostituendosi ad aspetti più ‘tradizionali’. La pluralità del Medio Oriente è stata sacrificata dal nazionalismo arabo prima, dalle varie dittature pseudo-rivoluzionarie poi e sempre sfruttata dalle potenze occidentali che ne hanno fatto uno dei punti di sfogo culminanti delle conflittualità internazionali.

Due anni fa abbiamo assistito al fenomeno delle “primavere arabe”, rivolte dai moventi libertari che, nella maggior parte dei casi, gli eserciti delle varie nazioni coinvolte hanno trasformato in nuove dittature. Può spiegarci il ruolo, le dimensioni e l’importanza degli “eserciti” nell’organizzazione degli stati arabi?

La mancanza di una classe media, di una borghesia indipendente dagli apparati dello Stato è il male endemico di queste società, spesso strette nella morsa del diabolico binomio autoritarismo più corruzione. Neppure i Paesi Arabi ricchi hanno ancora varcato questa soglia: le “primavere” sono state un segnale di profondo disagio di una società civile, specie giovanile, ormai alla disperazione e che sogna solo di potersene andar via.

Nel mondo arabo oggi prevale la posizione di chi vuole “modernizzare l’Islam” o di chi vuole “islamizzare la modernità”?

Son formule ormai vuote, salvo il fatto che esprimono l’inevitabile esigenza di un compromesso fra tradizione e rinnovamento. Quest’ultima però non può avvenire solo sul piano ideologico: serve una radicale riforma delle istituzioni e della ridistribuzione del reddito. Un po’ come per l’Italia del secondo dopoguerra: abbiam potuto voltar pagina solo grazie alla Costituzione e alla ricostruzione.

Alle volte l’impressione che si ha è che i musulmani moderati residenti in Occidente diano un contributo minimo a un’integrazione che invece è necessaria. Si è visto anche a seguito dei fatti di Parigi, dove a parte dissociarsi non si è fatto molto di più. Lei cosa ne pensa a questo proposito?

Il difetto delle ‘maggioranze silenziose’ è appunto quello di non farsi sentire, ma c’è anche una grossa responsabilità del sistema mediatico ammalato di sensazionalismo: le buone notizie non mancano, ma non fanno notizia. Così il peggio, in tutti i campi, rischia di diventare una profezia che si auto-avvera, e il prezzo lo paga l’intera società.

Quale pensa che sia oggi un’azione politica concreta da intraprendere per avvicinare noi e i musulmani che vivono o arrivano in Italia, un po’ più lontani dopo Charlie Hebdo?

Così come un buon padre di famiglia o un educatore non possono dire solo ‘no’, anche la politica verso gli immigrati deve saper distinguere e promuovere chi si comporta meglio, isolando gli altri. Mi pare che per miopi calcoli di consenso si faccia esattamente l’opposto e una democrazia che non sa gestire le questioni in tale prospettiva tradisce la sua natura e genera solo pasticci che nessuna sanatoria potrà sistemare.


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