Fa parte ormai dei luoghi comuni ritenere che l’attuale crisi non è solo faccenda economica ma abbraccia la globalità dell’essere. Gli uomini di fede, proprio perché vivono con indignazione e compassione la crisi come luogo della profezia, vedono nell’autorità una “persona di frontiera” che abita in modo responsabile il quotidiano, facendosi carico di tutti coloro che vivono questo quotidiano in modo faticoso, nella solitudine, vittime di mille tensioni.
La caratteristica di questi “veri uomini di frontiera” è in primo luogo il dialogo con un punto fermo costituito dalla fedeltà alla vita della propria gente che, ancora oggi, impone di essere duri contro le ipocrisie, frutto di una mente malata, e sensibili con chi è vittima di chiacchiericci, inciuci e diffamazioni che costituiscono copertura all’incapacità personale di gestire la ricchezza umana che si ha attorno, preferendo la tecnica, come esibizionismo del proprio essere.
Dialogare significa essere convinti che l’altro abbia qualcosa di buono da dire, fare spazio al suo punto di vista, alla sua opinione, alle sue proposte: per dialogare, è necessario abbassare le difese ed aprire le porte.
L’altra caratteristica di questi “uomini di frontiera” è il discernimento, ovvero la capacità di raccogliere ed esprimere le attese, i desideri, le gioie e i drammi della propria gente, e di offrire gli elementi per una lettura della realtà lontana dalle manipolazioni aggressive tipiche di chi vuol dimostrare le proprie capacità calpestando anche le norme più elementari dell’etica relazionale.
I veri uomini di frontiera sono sempre una presenza attiva “nei campi più difficili”, “nei crocevia delle ideologie” e “nelle trincee sociali”; sono delle sentinelle attente e lungimiranti nello scorge all’orizzonte segni e situazioni che necessitano una presenza autorevole o nell’avvistare delle novità che potrebbero rivelarsi utili alla comunità, per cui, da pioniere, l’autorità si avventura per prima, sacrificandosi, per evitare che la comunità, o un membro di essa, possa rimanere penalizzato; in questo contesto, l’ufficio dell’autorità non è fine a se stesso, ma è rapportato alla comunità: se non c’è comunità, non può sussistere il ruolo dell’autorità.
Il ruolo dell’autorità, secondo quest’ottica, è un servizio amorevole, non una struttura inevitabile o una necessità organizzativa: l’autorità, non è là perché ci vuole un po’ di ordine, ma per confermare storicamente la comunità.
Poiché questo servizio comporta delle prove, ne deriva per la comunità l’invito a non abbandonarlo nel momento della difficoltà anche quando, da essere “pastore del gregge”, si riduce ad essere semplice leader di un gruppetto di amici in cui ci si sente a proprio agio e questo diventa luogo privilegiato di confronto: sarebbe la fine de ogni autorità!
Elia Ercolino