«Ti accompagno a prendere ‘sto treno?» – «Magari un’altra volta. Per oggi, sono già arrivato…»

Guardi le colline digradare e risalire. Distese di grano, macchie di verde qua e là, talvolta cipressi che si ergono al cielo come guardiani del campo. Ti sovviene il viaggio nel tempo. Chissà quante schiene spezzate su quelle zolle. Quanti hanno mietuto il grano, poi dissodato, poi seminato, poi atteso, ancora e ancora… Il ciclo delle stagioni, il ciclo della vita. Seminare per morire, morire per rinascere e dare cibo, nutrimento che viene assimilato, al prezzo di una consunzione.

Strana avventura, questa nostra esistenza. A guardarla con occhi estranei, la si potrebbe definire assurda. A viverla, ti colma di meraviglia ed è sempre capace di sorprenderti. Ti spiazza l’idea che la gioia ti giunga attraverso ciò che ti consuma: energie, vigore, tempo. Sacrifichi il meglio di te e vorresti fare tutt’altro. Eppure è attraverso questo continuo lavorio che la tua vita si colma e la tua luce risplende, mentre la cera si scioglie…

«Sei di nuovo assorto nei tuoi voli da filosofo contadino?», la voce di Pietro riporta Cosimo alla realtà.

«No, Pietro, filosofo contadino è un complimento che non penso di meritare per almeno due ragioni: primo, non sono filosofo, quanto al contadino, tu sai quanto sia imbranato. Però è vero che ogni volta che mi raggiunge lo spettacolo della natura sono trasportato via, in un tempo lontano o magari in un futuro remoto…».

«Tu pensi troppo! Te l’ho sempre detto: perché piuttosto non ti godi un po’ la vita? Come diceva Ovidio? Cogli l’attimo!»

«Orazio, Pietro caro, lo diceva Orazio. E ad essere precisi nel suo carme c’è scritto: carpe diem. Solo che non significa propriamente quello che dici tu: non è un invito a spassarsela, punto e basta. È un monito a non credere che il tempo sia eterno, che ne abbiamo a disposizione in quantità illimitata. Insomma, il poeta ci dice: visto che non avete tutto il tempo che volete, provate a non sprecarlo, è una risorsa limitata, perciò vivetelo bene, siate protagonisti della vostra esistenza, attenti a come la spendete. Lo vedi? Ti ho già rotto! Ok, mi fermo, ma lascia che ti sveli un’ultima chicca: lo sai che Orazio è nato proprio da queste parti, a Venosa?»

«Caspita! Di tutta la tua predica da prof, questo è ciò che mi interessa di più! Chi l’avrebbe detto che un pezzo così grosso sarebbe partito da questi campi…».

«Pietro, ricordati: la sapienza che viene dalla terra non inganna mai. Lui ha lasciato queste contrade, chiamato dalla grande Roma, ma non ha mai tradito la sua terra…».

«Non l’hai ancora dimenticata, vero?»

…Elena. Bella, solare, luminosa. Occhi fluorescenti, due gocce di smeraldo su una pelle bianca e capelli neri come l’eterno. Un sorriso magnetico. E quella risatina che accompagnava ogni battuta e la rendeva inconfondibile, il suo marchio di fabbrica. Cosimo se ne era innamorato a prima vista, quello che si dice un colpo di fulmine, ma non glielo aveva mai confessato. Non con la voce, almeno.

No, il suo silenzio non era dovuto a timore, timidezza o roba del genere. Piuttosto egli credeva che non ci fosse bisogno di parole. Quello che c’era tra loro due lo sapevano entrambi e non aveva bisogno di esprimersi in frasi da cioccolatino Perugina e nemmeno nel contatto dei corpi. C’era e basta e li univa in un modo che andava oltre le abitudini dei comuni mortali…

Solo che, poi, il loro tempo era passato. Un treno li aveva divisi. Lei al nord, lui nella sua Lucania. Lettere, cartoline, ogni tanto una telefonata: «Ciao Ele, come stai? Volevo farti gli auguri per il tuo compleanno…», «Che carino, Cosimo, te ne sei ricordato!»

Come dimenticarla. Le era rimasta stampata nel cuore e, anche se aveva conosciuto l’amore di altre donne, Elena era rimasto il primo, l’unico, l’amore non consumato: quello che ti lascia l’indefinito del non vissuto, che ti sorprende con una promessa mai tradita, benché mai compiuta. Un amore la cui dolcezza, di tanto in tanto, torna ad allagarti il cuore, proprio come la spiga che torna d’oro su un campo che era stato di ghiaccio.

«Toc, toc, ci sei? Filosofo contadino, sei qui? O hai preso un’altra delle tue tangenti?»

«Lo scemo che sei. Dai, andiamo…».

«Dove, se è lecito chiedere?»

«Accompagnami in stazione. C’è un treno che mi aspetta».

«Parti? Davvero? Vai da lei?»

«Non parto. Mi basta guardare il treno che passa».

«Questa è bella. Parti, ma resti. Vai in stazione, ma non prendi il treno. Sei proprio uno svitato!»

«Hai ragione. Sono uno strano. Diciamo pure: fuori chiave. A volte mi chiedo come faccia tu a restare mio amico…».

«Me lo chiedo anch’io. Allora che faccio? Ti accompagno a prendere ‘sto treno?»

«Magari un’altra volta. Per oggi, sono già arrivato…».


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La mia fortuna? Il dono di tanto amore che, senza meriti, ricevo e, in minima parte, provo a restituire. Conscio del limite, certo della mia ignoranza, non sono mai in pace. Vivo tormentato da desideri, sempre e comunque: di imparare, di vedere, di sentire; di viaggiare, di leggere, di esperire. Di gustare. Di stringere. Di abbracciare. Un po’ come Odysseo, più invecchio e più ho sete e fame insaziabili, che mi spingono a correre, consapevole che c’è troppo da scoprire e troppo poco tempo per farlo. Il Tutto mi asseta. Amo la terra di Nessuno: quella che pochi frequentano, quella esplorata dall’eroe di Omero, ma anche di Dante e di Saba. Essere il Direttore di "Odysseo"? Un onore che nemmeno in sogno avrei osato immaginare...