L’uomo non ha smesso di dar voce all’anelito, che lo abita, di ricongiungersi con la bellezza

La grande musica classica è una miniera da cui non si finirebbe mai di estrarre perle preziose sotto il profilo culturale e spirituale. L’ascolto di un mottetto, cioè di una composizione più o meno breve a più voci e strumenti, per chi si professa credente può rappresentare un momento di preghiera in cui la parola della Bibbia o della liturgia risalta con particolare evidenza grazie alle ai suoni e alle pause, ai “piano” e ai “forte” della voce, ai colori delle note che allargano o evidenziano il valore della Parola. Per chi non crede, quella stessa musica può rappresentare un momento di intimo raccoglimento e di pausa in mezzo alla frenesia della vita. Per entrambi, l’ascolto di un tipo diverso di musica come quella classica, a cui siamo sempre meno abituati per diversi motivi, può costituire senza dubbio l’occasione di una intensa esperienza di rientro in se stessi, durante la quale le corde dell’anima iniziano a vibrare con quelle di chi canta. È il miracolo della musica, e in particolare quello di un certo tipo di musica che ha la capacità di sussurrare al cuore emozioni che non possono essere comprese con un linguaggio ordinario, di sprigionare energia positiva nella negatività che ci circonda, di risvegliare la nostalgia della bellezza e di quel Qualcuno che al momento della creazione ha deciso di donare all’uomo la capacità di estrarre melodie infinite e bellissime dall’angusto spazio armonico di sole sette note. Da quel giorno, l’uomo non ha smesso di dar voce all’anelito che lo abita, di ricongiungersi con quella bellezza che, celata nelle pieghe del quotidiano, non aspetta altro che poter brillare nel cuore del singolo e dell’intera umanità.

Proverò, da amante della grande musica, a proporre qualche brano della tradizione musicale europea, per prepararci spiritualmente alle festività pasquali. Il primo brano che vorrei suggerire è l’Ave Verum di Mozart (1756-1791). Evitando di presentare il genio salisburghese – chiunque, navigando in rete troverebbe notizia utili a comporre la trama della sua breve ma grandiosa vita- dirò solamente qualche parola sul brano in questione. Innanzitutto riporto il testo in latino, tratto dalla liturgia, e la traduzione:

Ave, Verum Corpus, natum de Maria Virgine
Vere passum, immolatum in cruce pro homine,
Cujus latus perforatum unda fluxit aqua et sanguine,
Esto nobis praegustatum in mortis examine.

Ave, o Vero Corpo, nato da Maria Vergine,
che veramente patisti e fosti immolato sulla croce per l’uomo,
dal cui fianco squarciato sgorgarono acqua e sangue:
fa’ che noi possiamo gustarti nella prova suprema della morte.

Il testo, risalente ad una antica poesia religiosa del XIV secolo, si concentra sulla presenza reale del corpo di Cristo nell’Eucarestia. Per bene due volte è usata l’espressione “veramente” (“verum corpus”, “vere passum”) ad esprimere la reale presenza del “vero corpo” di Cristo in quel piccolo pezzo di pane di cui il cristiano si ciba su mandato dello stesso Cristo durante l’ultima sua cena (“Prendete e mangiate tutti…Fate questo in memoria di me”). Cristo, nato dal grembo della Vergine Maria, immolato sulla croce per l’uomo (“pro homine”). Il riferimento al sangue e all’acqua fuoriusciti dal costato di Cristo rimanda al Vangelo di Giovanni: “uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito né uscì sangue ed acqua” (Gv 19, 34). La grande tradizione patristica ha visto nel sangue e nell’acqua rispettivamente il Battesimo e l’Eucaristia[1].

La musica di Mozart, che prevede coro a 4 voci, orchestra e organo, è tutta concentrata e raccolta intorno alle poche parole della preghiera. La struggente bellezza delle note allarga e sostiene le verità di fede contenute nel testo. Come poter riconoscere “veramente” in un pezzo di pane il “vero” corpo di Cristo senza un sussulto di commozione? Tutto questo esprime la musica in un devoto raccoglimento, in un sommesso silenzio. E’ come se tutto si fermasse per lasciare spazio alla fede che si inginocchia davanti alla verità di una briciola di pane (“è tutto nell’intero e nel frammento” direbbe S. Tommaso) che ha la pretesa di contenere, nella sua terrena materialità e quotidianità (quale cibo più comune del pane?), il Dio che i cieli non possono contenere.

Le note diventano poco più cupe sulle parole “cuius latus perforatum…”. Lungo lo spazio di qualche battuta la musica cambia tonalità e passa a cantare con rassegnata tristezza il fianco ferito di Cristo. Ma è solo un momento. Infatti, sulle parole “esto nobis” ritorna la tonalità di partenza, Re maggiore, restaurando così il clima di devozione e adorazione iniziali. Un ultima suggestione: il canto, dopo aver raggiunto la sua massima altezza ed espansione sulle parole “cruce” e, ancor di più, su “mortis”, quasi a voler concentrare l’attenzione sulla dolorosa vicenda del Cristo che ora si nasconde nel candido pane dell’Eucaristia (la teologia chiamava sacrificio cruente quello compiuto sulla Croce e incruente quello che si compie sull’altare), torna a farsi piccolo e sommesso sull’ultima parola, “examine”. “Fa’ che noi possiamo gustarti nella prova suprema della morte”. È solo una caso che Mozart si sia dedicato a questo testo quando ormai mancavano pochi mesi alla sua morte e sia riuscito ad esprimere l’inesprimibile in sole 46 battute? Per dirla col poeta tedesco H. Heine: quando le parole finiscono inizia la musica…

Buon ascolto!

Wolfgang Amadeus Mozart, Ave, Verum Corpus, Choir of New College Oxford:

https://youtu.be/FVshvajSMGY

[1] Cfr. AGOSTINO DI IPPONA, Commento al Vangelo di Giovanni, Omelia 120, 2.