Intervista al Dott. Francesco Messina, coordinatore GIP-GUP del Tribunale di Trani

In occasione dell’evento “I giovani sono tutti sovrani” dello scorso 6 luglio, abbiamo imparato a conoscere Don Milani nelle vesti di educatore e insegnante per le insegnanti come Alessandra Gattullo. Stavolta, interpellando l’altro ospite della serata, il coordinatore GIP-GUP del Tribunale di Trani, il Dott. Francesco Messina, siamo scesi nelle profondità di un uomo dall’indistruttibile coerenza con i suoi princìpi, unita ad un inflessibile senso pratico, un uomo la cui fede travalicava i confini dell’ovvietà per approdare in mari agitati da Fede e Giustizia.

Dottor Messina, chi è per lei Don Lorenzo Milani? 
Una personalità complessa, non incasellabile negli schemi pragmatici e, soprattutto, mentali a cui oggi siamo abituati. Lo definirei un “irregolare” che si è posto, come riferimento via via più radicale della sua vita, l’elevazione civile delle persone che ha incontrato sul suo cammino ministeriale. 
Don Milani capì che è attraverso un percorso di affrancamento e di liberazione dalle imposture del mondo che l’individuo ri-scopre la propria dimensione più vera.
Va detto che egli non ebbe mai alcun interesse a fare banali operazioni di proselitismo perché era convinto che la Fede cristiana sia uno “stato di Grazia”, un dono di cui si può essere o meno destinatari.
Ciò che è decisivo in don Lorenzo è che l’uomo sia il più possibile padrone del proprio destino, consapevole, cioè, dei talenti che ha avuto in dote e che deve fruttare non con egoismo, ma guardando sempre alla condizione degli altri per migliorarla. 

In che modo il concetto di giustizia, con cui lei ha a che fare quotidianamente nelle udienze in tribunale, può essere applicato al modus operandi di Don Milani? 
In ogni carta processuale che io esamino c’è la storia delle persone. Ci sono ansie, dolori, errori esistenziali, speranze.
C’è un mondo di cui il giudice deve tener conto quando prende la decisione.
Quando inizia un processo penale vuol dire che si è verificato uno squilibrio nel rapporto tra soggetto e comunità. E il magistrato è chiamato a riflettere in modo critico sulle anomalie, non solo guardando al diritto astratto, ma ai bisogni degli altri. Realizzando una complessa e faticosa opera di riequilibrio. È evidente che il magistrato interviene in uno spazio della vita civile che non è quello, che definirei preventivo, dell’educatore e dell’insegnante (e che era lo spazio “tipico” di Don Milani).
Il magistrato deve applicare la legge. Ma deve sempre farlo sapendo che la sua decisione non riguarderà solo le parti interessate nella vicenda processuale, ma indirettamente anche la comunità.
Perché, molto “milanianamente”, ciascuno deve saper farsi carico del tutto, senza nascondersi dietro il proprio ruolo sociale o istituzionale. 

Nell’encomio che ha voluto rivolgere a Don Milani, durante la serata “I giovani sono tutti sovrani”, ha citato l’esempio di accoglienza che il priore fiorentino riservò addirittura a Pietro Ingrao. Può ricordarlo ai lettori di Odysseo? 
Si tratta di un episodio paradigmatico del metodo di don Lorenzo perché è rappresentativo del suo modo di essere. 
Ingrao si recò a Barbiana, come uno dei massimi esponenti del mondo comunista, perché era interessato a capire l’esperienza di questo sacerdote così “anomalo”.
Ingrao fu accolto da don Lorenzo con quella che si potrebbe definire una sobria gentilezza. Poi, come era costume a Barbiana, appena fu possibile (perché lì si studiava 12 ore al giorno), Ingrao venne sottoposto dai ragazzi a un fuoco di fila di domande serrate e stringenti su temi politici, economici e ideologici.
Questo era un altro tratto particolarissimo di quella scuola: non si era accolti a Barbiana per soddisfare curiosità personali, ma solo per lasciarvi qualcosa di utile per gli altri. Non c’era spazio per celebrazioni e promozioni di se stessi (cosa che oggi è molto in voga negli spazi di c.d. spazi di “approfondimento” culturale).
Si doveva interloquire in modo critico con gli altri e lasciare ad essi, gratuitamente, almeno una parte del proprio sapere teorico ed esperienziale.
Don Milani aveva chiara l’idea (perché l’aveva testata prima su se stesso) che chiunque si trovasse, per classe sociale o per potere acquisito, in una posizione di vantaggio, dovesse colmare le differenze cognitive di coloro che il “sistema” aveva messo in una posizione di irrilevanza ovvero di mancanza di parola e di decisione.
Al termine, di quella serata Ingrao rimase molto colpito nell’animo. Egli capì che quello non era stato un semplice incontro con un sacerdote e alcuni ragazzi, ma una lezione di politica e di vita.

Dapprima svilita, la figura di Don Milani ha trovato valorizzazione solo attraverso le parole di Papa Francesco. Perché ci è voluto tanto?

Don Lorenzo è stato un sacerdote che ha fatto del proprio ministero un esempio di radicale coerenza cristiana. 
Una radicalità, però, molto lontana dagli approcci ottusi e chiesastici. È  la coerenza cristiana ciò che induce a guardare le storture del mondo, alle ingiustizie, e poi spinge all’agire per “abbassare le montagne” e “colmare” i vuoti.
Tutto questo esige un atteggiamento teso a quella che i greci chiamavano “parresìa”, e cioè la capacità di cercare la verità e di manifestarla senza alcuna accondiscendenza verso il potere o temere alcuna conseguenza personale.
Una condotta, quindi, orientata al servizio dei principi della coscienza, e non della convenienza.
Papa Francesco ha certamente colto questo profilo profondo del vivere cristiano, ma, a mio avviso, ha realizzato due ulteriori importantissime operazioni.
Da un lato ha chiarito che la vicenda milaniana nasce e si mantiene nell’ambito ecclesiale, ponendo così un freno alle indebite appropriazioni di certi (a volte interessati) settori laici.
Da un altro lato, il Papa ha indicato a tutti (gerarchie ecclesiastiche comprese) l’esperienza terrena di don Lorenzo come esemplare, proteggendolo definitivamente da chi, all’interno della Chiesa, ha ritenuto il Priore un’insopportabile anomalia da ostracizzare e sterilizzare in ogni modo.

Cosa vede di Don Milani nelle testimonianze della sua stretta collaboratrice Adele Corradi?

Conosco da molti anni Adele Corradi e con lei ho discusso tanto del suo rapporto con don Lorenzo. È stato grazie alla pazienza di Adele che ho capito l’importanza di una vita vissuta in modo così bruciante, sempre protesa nel dare un senso al proprio quotidiano. 
Don Lorenzo non è stato un eroe o una sorta di figura mitica, e come tale irraggiungibile dagli altri, ma un Uomo che ha cercato le cose grandi e vere ovunque egli si sia trovato a operare.
Adele Corradi ha avuto la possibilità di potersi confrontare con don Lorenzo da una posizione generazionale simile. Io sono persuaso che questo contatto apparentemente sottile e limitato agli ultimi quattro anni di vita, sia stato molto importante sul piano esistenziale. 

Precursore di certi ideali, Don Milani ha anticipato, di quasi dieci anni, la ribellione sociale di Pasolini. Cosa sarebbe successo se i due fossero vissuti più a stretto contatto?
È una bella domanda che, però, non può avere una risposta, anche se vi furono tentativi per far incontrare don Milani e Pasolini
Posso dire che in “Esperienze pastorali” (pubblicato nel marzo del 1958), Milani intuì prima di tanti la modifica antropologica che l’Italia avrebbe subito sotto l’influenza dei nuovi strumenti mediatici gestiti dal potere politico ed economico degli anni ’50 e ’60.
In questo senso, don Milani fu davvero profetico perché ebbe la più importante capacità dei veri intellettuali, e cioè quella di antivedere ciò che accadrà alla comunità di cui fanno parte. Don Lorenzo, nel suo libro e in tanti altri interventi scritti e parlati, lo ha fatto guardando sempre all’uomo, alla sua capacità di autodeterminarsi e di decidere.
Anche Pier Paolo Pasolini scaverà a fondo questo enorme tema esistenziale collettivo, seppur da un punto di vista più squisitamente laico.
Ma non vi è dubbio che, da punti di osservazione diversi, entrambi hanno compiuto alcune tra le riflessioni più profonde sulla società italiana.      

Quale domanda porrebbe il dott. Messina a Don Milani?

Più che porgli domande mi piacerebbe discutere con lui come se avesse la mia stessa età. 
Don Lorenzo è morto a 44 anni, mentre era ancora (malgrado la sua malattia) in forte spinta propulsiva intellettuale.
A cinquant’anni si guardano le cose con gli occhi dell’esperienza maturata nella parte centrale della vita.
Ecco perché mi piacerebbe confrontarmi con lui,  sarebbe come fossimo due coetanei, mettendo sul piano della discussione le disillusioni, le amarezze, i dubbi, insieme alle certezze acquisite nel tempo e alle speranze non sopite.
Soprattutto, però, mi piacerebbe dirgli che l’ho sentito sempre al mio fianco, quasi udendo la sua voce, nelle riflessioni e nelle scelte più importanti della mia vita. Senza aggiungere altro, e poi rimettendoci subito, insieme, a svolgere il compito che ci è stato affidato.


FontePhoto credits: Vincenzo Sdolfo
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Iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Puglia, ho iniziato a raccontare avventure che abbattono le barriere della disabilità, muri che ci allontanano gli uni dagli altri, impedendoci di migrare verso un sogno profumato di accoglienza e umanità. Da Occidente ad Oriente, da Orban a Trump, prosa e poesia si uniscono in un messaggio di pace e, soprattutto, d'amore, quello che mi lega ai miei "25 lettori", alla mia famiglia, alla voglia di sentirmi libero pensatore in un mondo che non abbiamo scelto ma che tutti abbiamo il dovere di migliorare.