Oggi la morte è sempre più “ospedalizzata” e “medicalizzata”, strappata alla vita familiare e consegnata alla gestione estranea del personale specializzato. Ma è sempre stato così? E, soprattutto, è giusto che lo sia ancora?

Ben lungi dall’essere esclusa dalla società, fino a non molti decenni addietro, la morte rivestiva una dimensione fortemente comunitaria e integrata nelle nostre società occidentali rispetto a oggi: era ammessa ed accettata come un aspetto e una fase importante della vita dell’essere umano. I bambini sperimentavano un contatto diretto con la morte; la potevano osservare sia per la strada che in casa. L’alta mortalità di allora e la promiscuità presente nelle case consentivano di avvicinare la morte ed imparare a prendere confidenza con essa.

Oggi la morte è diventata un’estranea: viviamo in una cultura che non sa più prendersi cura del morire e del morente. La morte, come la stessa vita dell’anziano, è sempre più “ospedalizzata” e “medicalizzata”, strappata alla vita familiare e sempre più consegnata alla gestione estranea del personale specializzato. Il morire si svolge, così, molto spesso in luoghi asettici e spersonalizzanti, in una condizione di solitudine reale ed emotiva, minacciato dall’anonimato e dall’indifferenza. Si aggiunga poi la fretta dei funerali, per cui tutto finisce con una forma di partecipazione convenzionale alle esequie, invio di fiori e di telegrammi, offerte benefiche in memoria ecc., senza tralasciare la spettacolarizzazione delle dirette televisive che creano odiens e quindi lamentele e diatribe di chi ne è stato escluso.

Si è assolutizzato la “qualità della vita”, al punto che spesso non sa più riservare alcuna attenzione alla “qualità della morte”: sappiamo curare il malato, ma non sappiamo consolare l’afflitto. Così la “buona morte” sfugge alla competenza medica esattamente come la “vita buona”.

Manca sostanzialmente uno spazio di riflessione e di elaborazione che sappia tradursi in messaggio propositivo, capace di accompagnare nel ciclo della vita gli individui, affinché prendano consapevolezza della limitatezza del vivere, per valorizzare la stessa vita elaborandone il senso, quando essa giunge a conclusione.

Gli sforzi principali del malato e dei suoi cari purtroppo riguardano lo scongiurare l’esito finale piuttosto che l’elaborazione di quel che attende chi sopravvive e chi lascia questo mondo; così si rende il morente uno spettatore dell’incapacità altrui di farsi carico del suo dolore.

Sarebbe troppo bello dare senso e dignità al morire, umanizzando l’ultimo passaggio con la restituzione al morente della dignità di interlocutore attivo (ars moriendi), là dove è possibile, e ai suoi cari la capacità di sostenerlo in questo passaggio.

Tuttavia, pur tra sogni e realtà, è possibile anche oggi vivere bene la propria morte. È possibile, sostiene Salvatore Natoli, se la si vive come esperienza di legame, se la si affronta come un compito: il proprio compito estremo. Allora essa appare come il compimento della propria vita, il capitolo estremo dell’arte del ben vivere… A morire s’impara da giovani!

A chi muore parrà di morire di meno, se muore per qualcuno, se vi è qualcuno che patirà per la sua perdita, ma che soprattutto si sentirà in obbligo di ringraziare l’Assoluto, perché quella vita c’è stata e perché quell’uomo è esistito. La morte oggi esige l’intensità, non la folla.

Ogni uomo che muore ha in generale molte cose da farsi perdonare, ma morirà bene chi ha un’eredità da lasciare e non tanto le sue cose, ma se stesso. Per questo egli muore di meno, perché vi è qualcuno che lo raccoglie.

Non è facile morire così, tuttavia non è impossibile: dipende soprattutto da come si vive… così, ragionando di morte, di fatto abbiamo parlato inevitabilmente dei vivi.